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Quando la rabbia prende il sopravvento: bullismo, rapine, sparatorie e crudeltà sugli animali. La deriva di una società che non sa più educare

Un’intera generazione sembra aver smarrito il senso del limite e dell’empatia: pestaggi nei cortili della scuola, rapine per strada, regolamenti di conti, sparatorie e atrocità contro gli animali sono all’ordine del giorno.

Non sono solo notizie di cronaca e non possiamo più ignorarle. 

C’è un rumore sordo e ovattato che attraversa le vie delle nostre città. È un rumore che non fa distinzioni di genere. E non è solo l’ululato delle sirene o lo schiamazzo attonito delle folle, ma è un sottofondo più inquietante: quello di una rabbia diffusa che esplode nelle mani dei più giovani. Le strade si tingono di luci blu e di rosso sangue. 

Rapine, pestaggi, atti vandalici, crudeltà verso gli animali, sparatorie in stile western: i ragazzini sembrano aver perso ogni filtro tra impulso e azione, tra frustrazione e distruzione, tra noia e azione. È una violenza che si insinua tra i cortili delle scuole, tra le vie di periferia e che, sgattaiolando fuggiasca, arriva fino ai centri storici, manifestandosi con un’aggressività brutale, priva di senso. 

Negli ultimi mesi, la cronaca italiana ci ha restituito un quadro impietoso: a Napoli, un quindicenne è stato arrestato dopo aver accoltellato un coetaneo per un motorino. A Milano, una gang di minorenni ha organizzato una vera e propria spedizione punitiva contro un gruppo rivale, culminata in una sparatoria all’interno di un parco pubblico. A Roma, una “baby gang” ha terrorizzato i residenti con rapine lampo e pestaggi casuali. 

Ma forse ancora più inquietanti sono i video che spuntano come funghi in varie città, in cui giovani si riprendono o si fanno riprendere mentre maltrattano animali solo per avere visibilità sui social. La violenza sugli animali è il profeta senza volto, ma non muto, della violenza verso l’altro, generalmente il più debole – non è un semplice “scherzo di cattivo gusto”, ma un potente predittore di comportamenti violenti verso le persone. Come sostiene l’American Psychological Association (APA), chi esercita sadismo sugli animali rischia di sviluppare un’escalation di condotte aggressive sempre più gravi, sempre più indicibili se non addirittura inimmaginabili. 

In altre parole, ogni cane preso a calci, ogni gatto arso vivo, ogni piccione abbattuto senza ragione, ogni coniglio sventrato non sono episodi isolati ma campanelli d’allarme, segnali di una devianza che, se ignorata, può esplodere in tragedia. 

Ma non è semplice fare una fotografia della situazione: serve il grandangolo, uno sguardo più ampio, capace di abbracciare tanto la dimensione psicologica e individuale quanto quella sociale e collettiva. I comportamenti violenti nei giovani sono spesso il sintomo di un disagio profondo, di un dolore non espresso – l’adolescenza è, per sua natura, il terreno più fertile per i conflitti: è la fase in cui si costruisce l’identità, si sperimentano i limiti, si cerca un posto nel mondo. Ma quando mancano figure adulte solide, genitori, educatori e insegnanti, quando la comunicazione emotiva si riduce a frammenti raffazzonati… la tensione interna può trovare sfogo solo attraverso l’azione violenta.

Il bullismo ne è l’esempio più rappresentativo. Quanta rabbia leggere la parola “ragazzata” quando si parla di bullismo – una dinamica di potere, una relazione patologica che nasce dall’incapacità di gestire le proprie emozioni, soprattutto quelle di inferiorità, paura e solitudine! Chi bulleggia cerca nel dominio dell’altro una conferma della propria esistenza, un antidoto (temporaneo) alla propria insicurezza. E chi lo subisce si trova intrappolato in una spirale di impotenza e vergogna – che può lasciare cicatrici profonde e, spesso, permanenti.

Ma la violenza non si ferma più tra le mura scolastiche o nei cortili degli oratori. In strada, nelle piazze, nei parcheggi abbandonati, nei parchetti e nei centri commerciali si consuma una violenza ancor più cieca. Le rapine tra coetanei (per pochi spicci, a conti fatti), gli accoltellamenti per un telefonino o per un paio di cuffiette, le sparatorie nei quartieri più degradati per uno sguardo verso la fidanzatina, non sono solo atti criminali: sono atti che raccontano di un vuoto, di una perdita di senso.

Molti ragazzi crescono in contesti dove la violenza non è l’eccezione ma la regola, dove la legge della sopraffazione è l’unica conosciuta, dove non ci sono modelli educativi alternativi e dove il gesto violento è il solo linguaggio conosciuto, l’unico modo per affermare la propria presenza in un mondo che sembra non aver mai visto davvero questi ragazzi.

Sul piano sociologico, questa escalation della violenza giovanile si intreccia con fenomeni più ampi: l’impoverimento economico, la disgregazione delle famiglie (allargate, a maglie troppo larghe), la crisi della scuola come istituzione educativa, la perdita del senso di comunità… In una società sempre più frammentata, individualista e narcisistica, i legami si sfilacciano come fibre logore e i ragazzi si trovano soli davanti a problemi troppo grandi. Problemi più grandi di loro, ancora, per loro, ingestibili. Non è un caso che molte delle “baby gang” più violente si formino proprio nei quartieri dove mancano spazi di aggregazione, dove la noia e l’abbandono scolastico si traducono in rabbia, violenza e aggressività. 

Ma non basta: non possiamo dimenticarci dell’effetto delle subculture digitali. I social amplificano l’aggressività, offrono modelli di comportamento improntati alla sfida, all’esibizionismo e alla sopraffazione. In una dimensione dove tutto è “contenuto”, anche il gesto violento diventa qualcosa da registrare, condividere e rendere virale. Ammazzare un gatto a sassate, annegare un cucciolo di cane, picchiare un compagno di classe, pestare a sangue la rivale in amore, sono tutti contenuti virali

Il bullo che un tempo agiva in cortile ora agisce davanti a un pubblico potenzialmente infinito (talvolta sotto la finta garanzia di anonimato che la rete offre). E se ogni azione viene vista, commentata, premiata con like e follower, il confine tra ciò che è giusto e ciò che è inaccettabile si sfuma, fino a sparire.

Forse l’aspetto più preoccupante di questa nuova violenza è l’incapacità dei ragazzi di riconoscerla e darle un nome: non solo non comprendono la gravità delle loro azioni, ma spesso non percepiscono nemmeno di averla agita. È come se il senso dell’empatia si fosse assottigliato fino a diventare un’ombra, un ricordo di generazioni passate. Questa anestesia emotiva può avere molte cause: l’esposizione continua a contenuti violenti, la banalizzazione del dolore altrui e della violenza, la crescita in ambienti familiari caratterizzati da anaffettività o da aggressività latente, la violenza assistista in famiglia…

Di fronte a tutto questo, il rischio è quello di limitarsi a risposte repressive – più polizia nelle strade, pene più severe, telecamere ovunque – tutte misure che possono arginare i sintomi, ma che non curano la patologia. 

Serve invece un lavoro profondo, capillare, che coinvolga le famiglie, le scuole e le istituzioni. Serve un’educazione emotiva all’empatia che insegni ai ragazzi a riconoscere e gestire le proprie emozioni prima che esplodano in violenza. Serve ridare senso alla comunità, costruire spazi di incontro reale, restituire ai giovani il diritto di essere visti, ascoltati e accolti.

La violenza dei giovani non è un problema dei giovani. È il riflesso, doloroso e inevitabile, di un tessuto sociale ormai logoro. È lo specchio che ci obbliga a guardare negli occhi le nostre mancanze come adulti, come educatori e come cittadini. 

Ogni pugno che colpisce un viso, ogni coltello che lacera la carne, ogni animale ammazzato, ogni sparo che riecheggia è, a conti fatti, un grido disperato che chiede attenzione, che chiede cura, che chiede un mondo diverso e che chiede di essere visto. 

Forse il primo passo è proprio questo: smettere di pensare alla violenza giovanile come a un problema da reprimere e cominciare a vederla come un dolore da ascoltare

Solo allora potremo sperare di disinnescare questa bomba silenziosa che ticchetta sotto i nostri occhi e restituire ai giovani la possibilità di un futuro diverso. 

Elisabetta Carbone
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Elisabetta Carbone

Sono Elisabetta Carbone, classe ’93, milanese di nascita ma cittadina del mondo. Mi sono diplomata al conservatorio per scoprire che volevo laurearmi in storia. Mi sono laureata in storia per scoprire che volevo laurearmi in psicologia. Dopodiché ho scoperto la sessuologia, ma questa è tutta un’altra storia. Non faccio un passo senza Teo al mio fianco, la mia anima gemella a 4 zampe. Docente, ambientalista, riciclatrice seriale, vegetariana.
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