Karoshi: morire per lavoro, l’altra faccia del Giappone

Dedizione assoluta all’azienda, rispetto per i superiori e sacrificio personale: ecco i capisaldi della nipponica cultura del lavoro.
In Giappone, lavorare fino a esaurire la linfa vitale è percepito quale valore aggiunto.
Tuttavia, cosa accade quando il sacrificio per la propria azienda diventa letale per l’individuo? Nella giornata dedicata alla salute del lavoratore e agli imprescindibili diritti sul lavoro, esploreremo le fondamenta di questa ambigua tradizione, le sue implicazioni sociali e il lento – ed inesorabile – cambiamento che sta avvenendo nei paesi del Sol Levante.
Ma quando nasce il karoshi?
Karoshi, ovvero la “morte per troppo lavoro”, è una delle terrificanti conseguenze che i lavoratori del Sol Levante devono combattere. I primi casi sono stati registrati negli anni ’60 del secolo scorso, e le radici del fenomeno vanno ricerca nell’espansione economica che il Giappone ha vissuto nel dopoguerra. Il boom economico, unito al sistema dell’impiego a vita (shūshin koyō), ha creato una cultura del lavoro in cui l’impiegato era quasi obbligato a dedicarsi completamente all’azienda. Tutto ciò, a discapito della vita privata e degli affetti.
In questo contesto nasce e si sviluppa il concetto di sacrificio, un’espressione assolutamente non nuova al popolo nipponico: già in epoca di samurai e ronin, il sacrificio era insito nella cultura del Sol Levante.
Va da sé, dunque, che la linea di confine tra vita personale e lavoro si è assottigliata sempre più: le ore di lavoro sono aumentate e il termine salaryman – l’impiegato modello disposto a tutto per dimostrare la propria fedeltà all’azienda – si è talmente radicato nella cultura giapponese da essere ormai oggetto di scherno e parodia.
Scegli un lavoro che ami e non lavorerai neppure un giorno in vita tua.
Il karoshi, come abbiamo visto, è risultato di una combinazione di fattori: stress psicologico, orari di lavoro estremi e mancanza d’attenzione alla salute mentale dei lavoratori. Difatti, solo nel 1987 il governo giapponese ha iniziato a pubblicare statistiche sul “karoshi”, riconoscendo il problema e tentando di sensibilizzare il pubblico.
Negli ultimi decenni, il Giappone ha registrato una crescente incidenza di ictus e suicidi legati al sovraccarico di lavoro: è impressionante come siano spesso i più giovani, appena affacciatisi al mondo del lavoro, a cadere vittime di questo fenomeno. La causa? Aziende esigenti che spingono i dipendenti a fare centinaia di straordinari, considerati un obbligo sociale in terra nipponica. Nonostante le leggi che tentano di limitare le ore lavorative e di garantire i diritti basilari, circa l’80% delle aziende impone ai proprio lavoratori di sacrificare almeno 80 ore al mese del loro tempo agli straordinari, spesso non retribuiti: si lavora per la famiglia. La cultura lavorativa giapponese vede nella richiesta di ferie una mancanza di dedizione.
A queste terribili premesse si aggiunge il fenomeno dell’inemuri: un pisolino breve che i lavoratori si concedono in ufficio o sui mezzi pubblici (prima o dopo la giornata lavorativa). Talvolta, oltretutto, il salaryman è costretto a dormire in ufficio, tant’è che non è raro notare cuscini o coperte nascosti negli armadietti o sotto le scrivanie: persino i konbini si sono attrezzati, mettendo a disposizione dei lavoratori ferri da stiro, cravatte da pinzare e camicie pronte all’uso.
Il successo dell’azienda per cui si lavora quale motivo di orgoglio personale
Sin dall’alba dei tempi, il lavoro è stato visto e interpretato in quanto vocazione per il popolo nipponico. Tale concezione affonda le sue basi nel pensiero confuciano che considera il lavoro quale parte integrante del benessere collettivo: l’impiegato veniva visto come parte di un ingranaggio più grande. Principi tradizionali come il giri (obbligo morale) e il ganbaru (impegnarsi con tenacia) contribuirono ad alimentare l’intensa pressione a raggiungere l’eccellenza in qualsiasi ambito, in primis lavorativo.
Dopo la Seconda guerra mondiale, il Giappone, sotto l’influenza dell’occupazione americana, intraprese una rapida ricostruzione economica guidata dal primo ministro Shigeru Yoshida. Le aziende assunsero un ruolo quasi paterno nei confronti dei lavoratori, offrendo impieghi a vita in cambio di lealtà assoluta, accompagnate da benefit e aumenti salariali. Questo patto sociale (“siamo una famiglia”) consolidò una forza lavoro stabile, ma rendendo il Giappone la seconda potenza mondiale. Nonostante la crisi degli anni Novanta, il Paese resta oggi la terza economia globale, con un bassissimo tasso di disoccupazione (2,8%). Tuttavia, questo successo è stato pagato con una pressione crescente sui lavoratori, chiamati a dimostrare lealtà e sacrificio personale.
Pratiche come i nomikai (riunioni conviviali aziendali), il rifiuto di prendersi ferie e la tendenza a lavorare anche in caso di malattia rivelano l’importanza del rispetto dell’autorità. L’abnegazione verso l’azienda si è trasformata in un valore sociale, moderno riflesso del concetto tradizionale di messhi hoko (autoannullamento per il bene collettivo), incarnato dalla figura dei kigyō senshi, i “guerrieri aziendali”.
La condizione della donna nel mercato del lavoro nipponico
Il Giappone continua a essere uno dei paesi più arretrati in termini di parità di genere: 125° su 146 paesi nel Global Gender Report del 2023.
Spesso le donne lavorano part-time, ostacolate da una cultura che ancora affibbia la responsabilità della cura famigliare alla madre e moglie, deresponsabilizzando il padre e nonostante l’introduzione del congedo di paternità. Come vedete, non siamo poi così diversi.
Tale deresponsabilizzazione, unita ad una considerazione del sacrificio lavorativo in quanto dovere morale e sociale, costringe spesso le donne a rinunciare alla propria carriera.
La pressione sociale
La pressione sociale gioca un ruolo fondamentale in tutto questo. Il rispetto per i superiori e la lealtà aziendale sono valori profondamente radicati, ma prendere ferie o abbandonare l’ufficio prima del proprio capo è visto come una mancanza di rispetto e può portare a gravi conseguenze sociali. Il “Senpai-Kohai“, un sistema di relazioni gerarchiche tra dipendenti senior e junior, è uno degli aspetti più importanti di questa dinamica. I dipendenti più giovani seguono i passi dei loro superiori, imitandone l’impegno e i sacrifici: un serpente che si morde la coda.
Tuttavia, il governo giapponese – consapevole della gravità della situazione – ha iniziato a prendere misure per limitare gli straordinari e migliorare le condizioni di lavoro. Le aziende stanno iniziando ad adottare misure più moderne, come il lavoro da casa e la riduzione delle ore straordinarie. La sfida del paese del Sole, dunque, è riuscire a conciliare la tradizione con la necessità di un mondo del lavoro più sostenibile e moderno, che possa garantire un migliore equilibrio tra vita lavorativa e personale.
Quanto vale la vita di un essere umano?
Il mito della produttività a ogni costo comporta un prezzo umano altissimo. Dietro l’immagine di un Paese esemplare per efficienza e crescita economica, si nascondono storie di sofferenza, malattie e morti premature. Comprendere i rischi insiti in questa mentalità è essenziale per evitare che l’ammirazione verso l’etica lavorativa giapponese si trasformi in un’emulazione. È necessario, tanto in Giappone quanto nel resto del mondo, promuovere un nuovo paradigma che valorizzi non solo la produttività, ma anche il benessere e la dignità dei lavoratori.
L’ossessione per la produttività estrema, infatti, non è più un fenomeno confinato all’Asia: come tristemente noto, anche l’occidente ha le mani impregnate del sangue di innocenti, lavoratori più o meno giovani morti sul posto o a causa di ritmi sfiancanti, impossibili da reggere.
A questo punto, converrebbe chiedersi: è davvero necessario essere sempre i primi o i migliori? Quanto vale la vita di un essere umano? Non abbastanza, a quanto pare.
Federica Polino
Leggi anche: Di università e lavoro non si muore: basta disuguaglianze e precarietà