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Archeologia della violenza: piccola storia del femminicidio

Il femminicidio non è un fenomeno recente ma una ferita antica, stratificata nel tempo, sedimentata nella cultura, nella psiche collettiva e nelle strutture sociali.

Soprusi, discriminazioni, prevaricazioni e rifiuto sono alcune delle lacerazioni che sanguinano nel cuore delle donne da tempi immemori.

Parlare di femminicidio e di violenza sulle donne significa riportare alla luce ciò che per secoli è rimasto nascosto, giustificato, normalizzato. Significa fare un viaggio scavando tra i reperti dell’archeologia della violenza, tra le radici storiche e psicologiche che hanno reso possibile la morte della donna per mano dell’uomo.

La biologia ci dice che la diversità tra maschio e femmina è prodotta dai cromosomi, XX per il sesso femminile, XY per il sesso maschile. La diversità di genere invece non è un dono della natura, ma il prodotto della cultura. Se femmina e maschio sono concetti biologici, donna e uomo sono costrutti sociali. E se biologicamente esistono solo un tipo di maschio (XY) e un tipo di femmina (XX), culturalmente esistono un’infinità di donne e di uomini, a seconda della cultura che crea stereotipi e pregiudizi su cosa sia “maschile” e “femminile”.

LA PREISTORIA E LA GILANIA

Sembra che nel Paleolitico le comunità umane fossero fondate sull’eguaglianza e senza una gerarchia autoritaria – assetto sociale che prosegue nel Neolitico, quando però maschi e femmine iniziano a svolgere attività differenti: l’uomo è cacciatore, la donna raccoglitrice e madre. Inizia il culto della Dea Madre o della Grande Madre, potente divinità femminile, simbolo di fertilità e ciclo delle stagioni (quindi del tempo) che presiede il ciclo della vita e della morte. Accanto a lei nascono divinità maschili minori, che poi finiranno per diventare predominanti.

Grazie ai risultati degli scavi archeologici di Mellaart e dalle analisi dell’archeologa Gimbutas, la sociologa Eisler conia il neologismo gilania per indicare questa prima fase storica plurimillenaria di uguaglianza tra i sessi. Le società gilaniche di oggi sono i Minankabau (Indonesia), i Moso (Cina) e gli Yuchiteca (Messico).

Alcune comunità preistoriche invece erano matriarcali, sistema che troviamo ancora oggi nei Tuareg del Sahara, nella comunità Irochese del Nord America, nei Kerala, nei Khasi e nei Jaintia in India.

ARCHEOLOGIA DELLA VIOLENZA: LA STORIA ANTICA E IL PREDOMINIO MASCHILE

Il passaggio dalla preistoria alla storia è lungo ma fertile per il genere maschile, che pone le basi del patriarcato e la costruzione di gerarchie con prevalenza maschile. La donna viene declassata gradatamente e il suo corpo diventa una proprietà, un oggetto sottomesso al marito o al padre, perdendo gradatamente autonomia.

Il Codice di Hammurabi (una delle più antiche raccolte di leggi scritte) ci racconta che la donna, pur avendo una certa indipendenza giuridica, è una proprietà del marito e la figlia nubile è proprietà del padre.

Se le donne babilonesi ed egizie avevano il diritto di proprietà, pur essendo sottoposte al padre o al marito, la situazione cambia drasticamente presso gli antichi greci e romani. L’unica eccezione è Sparta, un caso unico, poiché le donne arrivarono di fatto a gestire l’economia.

Pandora è la prima donna della cultura mitologica greca che, spinta dalla curiosità, apre il vaso che Zeus le ha donato con l’ordine di lasciarlo chiuso. Dal vaso uscirono gli spiriti malvagi che incarnavano i mali del mondo che si abbatterono sull’umanità. Platone e Aristotele si prendono beffa delle donne, descrivendole come esseri inferiori all’uomo, deboli, incompleti, menomati. La donna è in sostanza un maschio mancato. Pitagora si spinge più in là, affermando che la donna è nata dal principio cattivo che creò il caos e le tenebre. Per Euripide la donna è il «peggiore dei mali».

S.P.Q.R. – LE DONNE A ROMA

I nostri progenitori, gli antichi romani, non consideravano le donne come cittadine a pieno titolo, dato che non potevano votare, accedere a cariche pubbliche o più semplicemente decidere per il proprio destino. L’identità giuridica e sociale della donna era definita dal legame con un uomo: il pater familias, il marito, il fratello, talvolta persino il figlio.

Nel matrimonio romano la donna passava formalmente sotto l’autorità del marito, perdendo ogni diritto ereditario rispetto alla famiglia d’origine. Solo più tardi alcune donne dell’aristocrazia cominciarono a gestire i propri patrimoni, ma sempre entro i confini della società patriarcale.

La violenza domestica era la norma sociale. Il marito aveva diritto di vita e di morte sulla moglie, sia in caso di adulterio sia per comportamenti ritenuti “disonorevoli”. Nessuna legge proteggeva la donna da abusi: il diritto romano non concepiva l’idea di una vittima all’interno della famiglia, perché il potere del pater era assoluto.

L’assenza di tutela generava un clima di sottomissione, normalizzato nella cultura dell’epoca: questo sistema produceva un senso interiorizzato di inferiorità nelle donne, educate fin da bambine a non contraddire e a non esporsi. Il corpo non apparteneva alla donna, che non aveva voce. Eppure c’erano delle differenze di classe tra plebee, patrizie e schiave.

Le donne patrizie, pur avendo maggiore visibilità, erano spesso delle pedine politiche nei giochi di alleanze familiari. Erano utilizzate per stringere matrimoni strategici e, solo alcune, riuscivano a ritagliarsi uno spazio di influenza culturale o religiosa – come le matronae o le Vestali, le uniche donne realmente indipendenti dagli uomini, ma comunque sottoposte ad un rigido controllo simbolico e rituale.

Le donne plebee, invece, lavoravano nei mercati, nelle botteghe o in casa, e avevano un ruolo più attivo nella vita quotidiana, ma erano ancora più esposte alla violenza e alla precarietà.

Le schiave, infine, erano completamente prive di diritti: i loro corpi erano oggetti a disposizione dei padroni, sessualmente e fisicamente.

LA DONNA E IL MONOTEISMO

La condizione della donna nelle tre grandi religioni abramitiche (ebraismo, islam e cristianesimo) varia notevolmente dal periodo storico al paese di riferimento. Giusto per citare la prima donna della cultura ebraico-cristiana, Eva, la più antica disobbediente tentatrice e peccatrice, rappresenta una figura negativa che induce l’uomo, Adamo, a disobbedire a Dio.

Queste tre religioni hanno una doppia valutazione della donna, la quale gode di parità spirituale ma è sottomessa all’uomo, per cui la sua vita si snoda tra divieti e imposizioni.

L’ebraismo, pur considerando la donna un soggetto indipendente di diritto, la sottomette al patronato maschile, che sia padre, fratello o marito. In origine, la donna poteva solo occuparsi della casa senza mai affacciarsi alla vita pubblica, nemmeno per l’aspetto religioso (non poteva studiare i testi sacri, obbligo per gli uomini; nelle sinagoghe era vietato oltrepassare il vestibolo e non poteva partecipare alla lettura della Torah e alle preghiere). Le donne potevano essere vendute come schiave o date in sposa dal padre, mentre quelle accusate di tradimento erano condannate a morte per lapidazione.

Il cristianesimo conferma e sottolinea le differenze tra donna e uomo, rimarcando la sottomissione femminile. Per San Paolo, la donna deve stare in silenzio e sottomettersi, non può insegnare e può essere salvata dai suoi peccati solo partorendo figli. La sottomissione è evidente anche dinnanzi a Dio, dato che le donne devono coprirsi il capo in segno di subordinazione e umiltà, a differenza degli uomini che sono l’immagine della gloria di Dio. La donna è solo la gloria dell’uomo. Nella Bibbia, quando si vuole umiliare qualcuno lo si definisce «figlio della donna», mentre Gesù è sempre definito «il figlio dell’uomo».

Nell’Islam la condizione della donna varia in base alle correnti religiose, alle interpretazioni della dottrina islamica e al luogo geografico. Scorrendo tra le pagine del Corano scopriamo che non c’è alcun versetto che prescrive l’obbligo di indossare il velo e coprire il volto e che, per la legge islamica, la donna ha gli stessi doveri dell’uomo. Tuttavia, ancora una volta, la donna è subordinata all’uomo a causa delle preferenze di Allah:

«Ammonite quelle di cui temete l’insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse» [Corano, Sura An-Nisâ’ (Le Donne), 34].

ARCHEOLOGIA DELLA VIOLENZA: DAL MEDIOEVO A NAPOLEONE

Il Medioevo vede la figura femminile in modo sfaccettato, sicuramente in base alla classe sociale di appartenenza, ma anche all’area geografica di riferimento.

Nell’Alto Medioevo si verifica un’ondata di misoginia dovuta principalmente agli uomini di Chiesa, sempre più attenti ad attribuire alla donna peccati imperdonabili (la tentazione di Adamo, la disubbidienza verso Dio, la morte di Giovanni Battista, la rovina di Sansone ecc.).

La donna diventa il capro espiatorio per qualsiasi cosa, spianando la strada al fenomeno della caccia alle streghe e all’istituirsi dell’Inquisizione. La donna-strega è una delle immagini medievali femminili più evocative: arsa sul rogo, mai pentita, forte di patti demoniaci.

A questa immagine di donna ribelle si affianca quella della donna debole e fragile che ha bisogno di un principe o di un uomo per essere salvata e per ritrovare la retta via.

Nel pieno del Medioevo la donna inizia timidamente ad assumere piccole responsabilità in ambito politico o amministrativo, generalmente come vicaria del marito e in sua assenza. È solo con il Basso Medioevo e la nascita della borghesia che si rivaluta la figura della donna, che inizia a inserirsi nella società. È anche il periodo di Giovanna d’Arco che, con le sue gesta, diviene eroina e poi santa patrona di Francia.

ETÀ MODERNA

Sempre rimanendo in Francia, è proprio la Rivoluzione Francese a rimettere in discussione le divisioni di genere: alle donne viene riconosciuta una presenza paritaria nella dimensione pubblica. Ma dura poco: nell’Ottocento si fanno tanti passi indietro. Per citare un esempio, i codici Napoleonici prevedevano la “certificazione maritale” in base alla quale la donna ritornava ad essere una proprietà del marito.

La donna torna ad essere quasi invisibile: se durante il Medioevo la violenza era legata a motivazioni religiose e morali, l’Età Moderna chiude la donna dentro casa, dove la violenza assume un volto più “rispettabile” e meno plateale, ma non meno brutale.

La donna è ormai pienamente identificata con il ruolo di moglie e madre, custode del focolare, priva di identità autonoma. Il matrimonio è un contratto economico e sociale, non un’unione affettiva. All’interno della casa, il marito esercita un’autorità che non viene quasi mai messa in discussione: la violenza coniugale è percepita come un fatto privato, non come un problema pubblico. Le mogli abusate non hanno possibilità di difesa legale né reti di supporto sociale.

Quest’epoca alimenta la naturalizzazione della dipendenza affettiva. Le donne vengono cresciute nella convinzione che il loro valore risieda nella dedizione totale all’uomo e alla famiglia. Se subiscono maltrattamenti, è perché non sono state abbastanza buone, obbedienti, silenziose. È il tempo in cui la colpa si insinua nelle vittime.

Siamo dinnanzi ad un’epoca contraddittoria. Da un lato, si assiste a una forte rigidità moralistica e patriarcale, dall’altro iniziano a emergere le prime voci femminili di dissenso. I movimenti femministi nascono in sordina, inizialmente legati alla lotta per l’istruzione e il diritto al lavoro, ma si allargano pian piano alla questione della violenza.

Tuttavia, chi si ribella viene spesso punita in modo sottile e crudele: la donna che esce dai ranghi viene medicalizzata, etichettata come isterica, instabile, socialmente pericolosa. La psichiatria dell’epoca, influenzata dal pensiero maschile, contribuisce a creare un nuovo tipo di violenza: quella diagnostica.

Molte donne vengono rinchiuse nei manicomi per aver espresso rabbia, desiderio o dolore. Non è più la forza fisica a essere usata come strumento di repressione, ma la patologizzazione del femminile: ogni segno di autonomia viene letto come squilibrio mentale. È l’epoca in cui la violenza si fa invisibile dentro la mente.

LA FABBRICA È DONNA

Nell’Epoca Moderna la donna entra in fabbrica, inizia timidamente ad acquisire una manciata di diritti, ma siamo lontani dalla parità con l’uomo.

Il sistema fabbrica è stato uno dei crocevia fondamentali per la trasformazione dell’identità femminile tra Otto e Novecento — luogo di sfruttamento ma anche di primi spazi di emancipazione collettiva.

La donna diventa un corpo produttivo. Con la rivoluzione industriale, milioni di donne vengono per la prima volta impiegate nel mondo del lavoro fuori casa. È un passaggio epocale: la fabbrica diventa il nuovo spazio del corpo femminile, non più solo domestico ma anche produttivo (eppure ancora privo di diritti, tutele e riconoscimento).

Le donne vengono scelte per i lavori più ripetitivi, faticosi e sottopagati, spesso in condizioni igieniche disastrose e con orari massacranti. Il corpo femminile è trattato come una macchina, usato fino all’esaurimento, senza alcuna attenzione alla salute fisica o mentale. Non esistono congedi per maternità o protezione dagli abusi. Le madri portano i neonati nelle culle accanto ai telai, le bambine iniziano a lavorare a otto o nove anni.

La violenza assume nuove formenon più solo quella del marito, ma anche quella del datore di lavoro, del caposquadra, dell’apparato produttivo. Molestie, ricatti sessuali, punizioni, sfruttamento sistematico: tutto rientra nella norma. Le donne non possono denunciare, né ribellarsi apertamente. Il silenzio diventa una seconda casa.

Ma è proprio in fabbrica che nasce anche la prima coscienza di sé come collettivo, come classe, come forza. Le lavoratrici iniziano a scioperare, a rivendicare spazi, a organizzarsi. I primi movimenti sindacali femminili portano alla luce non solo le condizioni materiali, ma anche il peso del lavoro alienante e della doppia giornata: operaia di giorno, madre e moglie di notte.

Il sistema fabbrica ha contribuito a ridefinire l’identità femminile in modo ambivalente: da un lato, ha confermato la donna come soggetto sacrificabile; dall’altro, ha acceso un desiderio nuovo di emancipazione, di parola e di resistenza.

Molte delle dinamiche nate dagli albori del sistema fabbrica sono ancora attive nei luoghi di lavoro: la discriminazione salariale, la precarietà, il mobbing, le molestie. Il sistema fabbrica non è mai scomparso: si è trasformato, digitalizzato, terziarizzato… ma continua a chiedere alle donne di produrre senza disturbare, di esserci senza esistere troppo. Di essere presenti senza far rumore.

ARCHEOLOGIA DELLA VIOLENZA: IL NOVECENTO

Nel corso del Novecento, soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, il ruolo della donna nella società occidentale cambia profondamente. L’accesso all’istruzione, al lavoro e alla vita pubblica cresce, ma la violenza non scompare: muta forma, diventa più subdola, si infiltra anche nei rapporti apparentemente paritari.

Negli anni ’70, grazie ai movimenti femministi, la violenza domestica e sessuale entra finalmente nel discorso politico e sociale. Le donne cominciano a raccontare, a denunciare, a uscire da un silenzio plurisecolare. Nascono i primi centri antiviolenza e, con essi, un nuovo linguaggio: si parla di abuso, di stupro coniugale e di molestia sul luogo di lavoro.

È in America Latina, negli anni ‘90, che si comincia a usare il termine femminicidio (feminicidio, coniato dalla criminologa Diana Russell) per descrivere l’uccisione sistematica delle donne in quanto donne. Questo termine rompe un tabù linguistico e culturale: nomina ciò che fino a quel momento era confuso con il “delitto passionale”, con “eccesso di amore” o con “impeto del momento”.

OGGI. E DOMANI?

Oggi c’è un aumento della violenza contro le donne che va di pari passo, paradossalmente, col declino dell’impero patriarcale. L’uomo vede e vive una donna libera, emancipata, ma ha ancora bisogno di mostrare la propria superiorità.

Oggi la donna si riempie di lividi, prende botte, viene uccisa.

Oggi parliamo di femminicidio, parola che in realtà non è corretta, non spiega la realtà. Non si ammazza perché è femmina, ma perché è donna. Non sono più delitti d’amore o passionali (d’amore non si muore), ma delitti di potere, di controllo, di dominio e di supremazia, di rivalsa verso un possesso mancato da parte di un uomo su una donna, su una fallita proprietà.

Ci stiamo lentamente abituando a un bollettino di guerra, che ha connotazione mondiale.

L’ultimo report delle Nazioni Unite uscito nel 2024 ha evidenziato che nel mondo, ogni 10 minuti una donna viene uccisa.

Non dimentichiamoci che la violenza di genere è una violazione dei diritti umani che accompagna la donna dalla nascita della storia.

Elisabetta Carbone

Leggi anche: Silence please, femminicidio in corso

Elisabetta Carbone

Sono Elisabetta Carbone, classe ’93, milanese di nascita ma cittadina del mondo. Mi sono diplomata al conservatorio per scoprire che volevo laurearmi in storia. Mi sono laureata in storia per scoprire che volevo laurearmi in psicologia. Dopodiché ho scoperto la sessuologia, ma questa è tutta un’altra storia. Non faccio un passo senza Teo al mio fianco, la mia anima gemella a 4 zampe. Docente, ambientalista, riciclatrice seriale, vegetariana.
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