Cos’è il razzismo ambientale
Da bambina quando mi veniva chiesto cosa avrei voluto fare da grande rispondevo sempre che avrei voluto aiutare gli altri: mi immaginavo come dottoressa in missione con Medici Senza Frontiere, oppure come un avvocato d’ufficio che aiutava le persone che non potevano sostenere delle spese legali, o come una fotografa in luoghi di guerra.
Crescendo poi mi sono resa conto che tutti abbiamo bisogno di aiuto, che anche la persona più felice al mondo in cuor suo ha bisogno di parlare ed essere ascoltata.
Mi sono resa conto che non c’è bisogno di andare al fronte per trovare persone che soffrono, ma che in realtà il dolore unisce tutta l’umanità. Nel primo decennio del 2000 la mia famiglia ha acquistato una casa vacanza nel Cilento (Sa); per raggiungere questa abitazione abbiamo sempre percorso la litoranea che tocca il comune di Pontecagnano fino al comune di Capaccio Paestum. Ed è proprio percorrendo questa strada che ho avuto i primi veri schiaffi dalla vita: sino ad allora non avevo mai visto una prostituta, una donna vestita di pochi stracci riscaldarsi vicino ad un fuoco occasionale fatto ardere per strada, una donna che per portare avanti la sua famiglia è costretta a vendere il proprio corpo; sino ad allora non avevo mai visto bruciare un cumulo di spazzatura; sino ad allora non avevo mai visto un uomo ubriacarsi fino a perdere i sensi e finire a terra tra il proprio piscio e l’alcool.
E ogni volta che al chiaro di un lampione intravedo un volto, in cuor mio mi chiedo quale grande azione io abbia compiuto per essere fortunata e nascere al di là del vetro.
Il primo a darmi le basi del c.d. Razzismo ambientale è stato mio padre: ricordo vividamente la sua franchezza nello spiegarmi che ci sono paesi nel mondo e quartieri in una città che fungono da ghetti, da zone-discarica, da luoghi abbandonati dalle istituzioni.
“I risultati dello studio analitico sull’ubicazione di impianti di rifiuti pericolosi suggeriscono l’esistenza di schemi chiari che mostrano come sia più probabile che le comunità con maggiori percentuali di minoranza della popolazione siano i siti di tali strutture. La possibilità che questi modelli risultino per caso è virtualmente impossibile, e suggerisce fortemente che alcuni fattori sottostanti, che sono correlati alla razza, abbiano svolto un ruolo nella localizzazione delle strutture di raccolta dei rifiuti pericolosi commerciali. Pertanto, la Commissione per la giustizia razziale conclude che, in effetti, la razza è stata un fattore nella localizzazione delle strutture per rifiuti tossici negli Stati Uniti.”
da “Toxic Waste and Race in the United States“, uno studio reportage pubblicato nel 1987 dalla Commissione per la giustizia razziale della Chiesa Unita di Cristo.
Nel mondo ci sono aree sfruttate, dove l’esposizione a sostanze tossiche è pane quotidiano. Dopo un’attenta selezione sociale la politica e le multinazionali decidono chi e quale ambiente è sacrificabile: costruiscono aziende con scarichi abusivi di acque reflue, canne fumarie non a norma con dispersione nell’aria e nelle acque di veleni per la vita, sia umana che animale. Ai “potenti” poco importa se i bambini nascono e crescono camminando a piedi nudi tra la spazzatura, se i vestiti che noi occidentali non usiamo più finiscono per diventare il cappio al collo di una tartaruga marina, se ci si ammala di tumore…
È facile girarsi dall’altra parte quando si parla di realtà lontane? Eppure, non è così. L’ho testimoniato; lo diceva anche Eduardo De Crescenzo in Così parlò Bellavista: “si è sempre meridionali di qualcuno”. C’è sempre qualcosa o qualcuno che dona una visione migliore, che suggerisce strade più sicure e meno egoistiche. La fortuna di essere dall’altro lato, quello buono, del mondo può essere ribaltata: da carnefici, potremmo pur sempre divenire vittime.
E allora? Cosa faremmo?
Numerosi i progetti umanitari e le associazioni che si occupano di far vedere anche agli occhi più miopi ciò che ci circonda; tra queste spicca il Progetto Happiness, nato dall’idea di Giuseppe Bertuccio D’angelo “di girare il mondo alla ricerca della ricetta della felicità!”
Qui il reportage girato in una delle più famose comunità Quilombo in Brasile, fondata da schiavi africani fuggiti dalle piantagioni in cui erano prigionieri nel Brasile.
Girarsi dall’altro lato è inutile, perché la realtà viene a bussare direttamente alla porta di casa.
Antonietta Della Femina
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