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Vajont a 60 anni dal disastro

Sono le 22.39 del 9 ottobre 1963, quando una parte di roccia si stacca dalle pendici del Monte Toc, dietro la diga del Vajont, tra il Friuli e il Veneto, e comincia a cadere.

“Già la strada alle sette di sera era bloccata. Dalle sette alle 22:39 quanta gente si sarebbe potuta salvare”, parla Giuseppe Vazza, sopravvissuto, a Internazionale.

In una notte di ottobre, in cui il buio regna sovrano già da un paio d’ore e il silenzio incoraggia a riposare, una massa di materia si prepara a distruggere, senza distinzione, case, paesi, persone e a cancellare per sempre qualsiasi ricordo di normalità.

A meno di 24 ore dal disastro, Alberico Biadene, direttore del progetto di costruzione della diga negli anni Cinquanta, aveva contattato i vertici della società costruttrice, la SADE (Società Adriatica di Elettricità), uno dei colossi elettrici dell’epoca, affinché si diramasse l’allarme e si provvedesse a un piano di evacuazione per le cittadine di Erto e Casso.

È circa mezzogiorno, il 9 ottobre, quando alcuni operai, in pausa pranzo, notano la montagna muoversi, come nell’accenno di una frana: alcuni alberi si inclinano, altri cadranno poco dopo, facendo rotolare a valle zolle di terra.

“Avevano capito che i morti sarebbero costati molto meno dei vivi”, ancora Giuseppe Vazza.

Rintoccano le 22:00. Il geometra Giancarlo Rittmeyer, a guardia della diga, telefona a Alberico Biadene, in quelle ore a Venezia, allarmato per i visibili segni di cedimento da parte della parete rocciosa, ma nessuna comunicazione ufficiale si diffonde a valle. Ormai è tardi. 

22:39. Meno di quaranta minuti dopo quella telefonata, la montagna crollerà: lo stesso Rittmeyer sarà tra le vittime. Aveva 30 anni.

La massa è fuori controllo: circa due chilometri quadrati di superficie e 260 milioni di metri cubi di volume precipitano con velocità inarrestabile, fiondandosi nel lago artificiale sottostante. Non c’è niente da fare. 

Lo schianto della massa con l’acqua solleverà un’onda di 230 metri di altezza (quasi quattro volte la Torre di Pisa), alzando 50 milioni di metri cubi di materiale, tra acqua, fango e altri detriti. 

Metà della massa, superando la diga, si abbatterà sulla valle del Piave, sommergendo sette paesi: Longarone, Pirago, Maè, Rivalta, Villanova, Faè, Codissago e Castellavazzo. L’altra metà, risalendo la valle, colpirà in Friuli i paesi di Erti, Casso e i borghi circostanti. 

Il frastuono e il vento che l’onda ha sollevato fanno da sfondo a un disastro del quale tutti si rendono conto, ma da cui ormai è impossibile scappare.

1.910 sono i morti accertati, di cui 460 i bambini sotto i 15 anni, 10 gli operai caduti durante gli anni di costruzione della diga e più di 700 le vittime che saranno sepolte senza nome. Quasi 2000 le vite recise, più di 400 i corpi mai ritrovati. A questo, si aggiunge lo strazio di chi resta: i feriti non si contano, i danni alle case neanche, le più sono state spazzate via. Le strade sono bloccate, ogni collegamento è interrotto.

L’onda ha travolto qualsiasi cosa. Non c’è stato scampo per chi è morto, non c’è scampo nemmeno per il dolore di chi si domanda perché sia rimasto ancora in vita.

Si dovranno aspettare le prime luci dell’alba per rendersi conto delle conseguenze del crollo: il paese di Longarone, nel bellunese, non esiste più. Non ci sono più edifici, né case, né alberghi o osterie, né si vedono le piazze o i monumenti, non esistono le strade e della stazione ferroviaria rimangono solo frammenti di binari distrutti. Non ci sono chiese, in cui andare a piangere i propri morti. Solo il campanile di Pirago rimane, alto tra le macerie.

“Un disastro annunciato” si dirà, una tragedia evitabile, fatta di dati occultati, perizie volontariamente ignorante e nascoste nei cassetti, rilievi parziali e compromessi, testimonianze di giornalisti e abitanti che, prima ancora del 1963, avevano denunciato la pericolosità di quel progetto folle. Il terreno della valle era franoso da sempre.

Nelle ore successive, con la luce del giorno, cominceranno a venire a galla, insieme alle macerie e ai corpi trascinati e sepolti tra acqua e melma, anche tutte le omissioni, le complicità, le corruzioni e le incuranze di imprese, funzionari e periti coinvolti nella costruzione della diga.

Dopo un iter processuale della durata di sette anni e mezzo, solo due degli undici imputati saranno condannati. Tra questi, c’è Alberico Biadene, condannato a cinque anni, poi condonati a tre. I risarcimenti non basteranno a cancellare le incurie, le colpe, i rimorsi e le morti.

Sono passati 60 anni, da quella notte terribile in cui il Monte Toc non ha retto il peso della smania umana di rendere tutto proprio, tutto artificiale, tutto dominabile.

Ne passeranno altri, ma neanche il tempo potrà cancellare l’incubo di un’onda di dolore che si abbatte e travolge, di un vento forte e di una polvere fitta e scura, finché nella valle del Vajont risuonerà, affacciandosi su una montagna squarciata, l’eco dei sopravvissuti: “Longarone non c’era più. E la gente dove sarà andata?”

Stefania Malerba

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Stefania Malerba

Sono Stefania e ho poche altre certezze. Mi piace l’aria che si respira al mare, il vento sulla faccia, perdermi in strade conosciute e cambiare spesso idea. Nel tempo libero imbratto fogli di carta, con parole e macchie variopinte, e guardo molto il cielo.
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