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Pinku Eiga – il cinema giapponese in rosa (e nero)

Un tuffo nel “rosa” dei pinku eiga, uno dei generi cinematografici più affascinanti del cinema del Sol Levante e le sue eroine a tratti così moderne e controverse.

I successi e gli onori che la critica cinematografica internazionale ha recentemente tributato al cinema asiatico sono sotto gli occhi di tutti.

Basti ripensare ai roboanti successi riscossi da pellicole quali Parasite (2019) di Bong Joon Ho, o Drive my car (2021) di Ryūsuke Hamaguchi, entrambi vincitori di numerosi premi Oscar.

La quasi unanimità dei pareri della critica riconosce a queste produzioni la capacità di affrontare tematiche ricorrenti della condizione umana quali la morte di una persona cara o il dramma dell’emarginazione sociale con un approccio lieve e inusuale, soprattutto agli occhi di un pubblico abituato alle convenzioni narrative di stampo occidentale.

Esiste un genere cinematografico, tuttavia, che è sempre rimasto in penombra pur avendo goduto di enorme popolarità in patria, a cavallo degli anni ’60 e ’80, e che soltanto adesso viene riscoperto e apprezzato in virtù dell’eclettismo che ne caratterizza le storie. Si tratta dei nipponici pinku eiga.

Ante omnia, è bene rivolgere la nostra attenzione all’etimologia del termine: i pinku eiga (ピンク映画), letteralmente traducibili come “film rosa”, nascono per andare incontro ai gusti piuttosto voyeuristici di un pubblico adulto in cerca di intrattenimento mediato da una generosa dose di shock value e siparietti pruriginosi.

Un paragone, non del tutto debito in verità, potrebbe essere imbastito con quella corrente che in terra nostrana ha dato impulso al filone della Commedia all’italiana, fortuna di interpreti divenuti vere e proprie icone della pop culture quali Lino Banfi, Tomas Milian, Edwige Fenech e Alvaro Vitali.


L’utilizzo di un colore come designazione di un genere narrativo non è nuovo, basti pensare ai nostrani “film gialli” o ai fumosi noir che spopolavano nell’America degli anni ’40. Nel caso dei pinku eiga, tuttavia, oltre ad una semplice convenzione, il colore rosa assume un più pregnante significato grazie alla presenza di personaggi femminili attorno ai quali ruotano le storie, i tradimenti, le vendette e le ossessioni che animano le sceneggiature di questo versatile genere cinematografico.

L’ultraviolenza e le rappresentazioni sessualmente suggestive, a tratti gratuite, fanno rientrare di diritto le produzioni “pink” sotto l’ombrello della cosiddetta sexploitation, un genere ormai desueto col quale numerosi cineasti moderni hanno giocato con continui rimandi e citazioni, creando una sorta di corpus dalle nette connotazioni estetiche e tematiche.

Il paragone con questi film, tuttavia, esaurisce ben presto la propria efficacia ed un’analisi più attenta rivela una sorprendente quantità di personaggi femminili mossi da motivazioni complesse e dallo sviluppo tridimensionale.

Questa scoperta si allontana di molto dalla definizione canonica del genere, che vuole le interpreti ridotte ad una cruda rappresentazione della fisicità e sensualità del corpo femminile, messo in mostra per il mero appagamento dello sguardo.

È così che le aspettative dello spettatore medio vengono spesso contraddette, e in molti casi si scopre il tentativo di mettere in scena un “tipo” di protagonista femminile tormentato da demoni che solitamente sono stati a singolare appannaggio dei colleghi maschi.

È il caso della protagonista del capolavoro Shurayuki-hime (1973), film conosciuto in occidente con il nome di Lady Snowblood e divenuto ormai vero e proprio cult in virtù delle numerose “citazioni” fatte da registi hollywoodiani (Kill Bill di Tarantino, ad esempio, ne è in parte una rilettura in chiave moderna e occidentalizzata).

In questa pellicola il destino di vendetta della giovane Yuki (che significa neve, nda) è segnato sin dalla nascita; la madre mette infatti alla luce la protagonista dallo squallore di un carcere in cui era stata ingiustamente confinata a vita, per l’uccisione del proprio stupratore.

La missione di Yuki, una volta compiuti vent’anni, sarà quindi quella di vendicare la madre uccidendo gli altri criminali della banda rimasti a piede libero. Una missione che porterà a termine nella maniera più cruenta e brutale possibile, naturalmente.

A parte le spettacolari scene di combattimento, magistralmente coreografate, emerge un piano di lettura estremamente raffinato che vede cozzare losche e buie ambientazioni contro il candore della neve, qui metafora della protagonista.

Inevitabilmente, la purezza del colore bianco verrà a macchiarsi di un profondo rosso scarlatto, come a puntuare il compiersi della brutale vendetta. Yuki, interpretata dalla regina dei pinku eiga Meiko Kaji, assurge ad emblema di una liberazione dalle sovrastrutture sociali ancora in vigore nel Giappone degli anni ’70. Avviene così il sovvertimento sistematico della figura di donna mite e stoica tanto cara alla imperante morale confuciana, che mai ammetterebbe la vendetta mediata dalla mano di un personaggio femminile.


Facendo un ulteriore passo indietro, il grande precedente letterario di questa storia è da ricercarsi anche nel cosiddetto genere delle “donne al veleno” (dokufu in giapponese): presunti reportage di cronaca nera che affollavano le fitte pagine dei quotidiani scandalistici giapponesi di inizio Novecento.

Spesso caratterizzati da una generosa dose di invenzione letteraria, queste nonfictions non lesinavano dettagli su efferati delitti commessi da donne, che si erano svincolate dallo stretto cappio della moralità diventando oggetto contemporaneamente di condanna e fascinazione degli strati sociali più umili e impressionabili.

Soffermandoci sul filone “vendicativo” del genere pinku incontreremo un altro cult, Seijū gakuen del 1974, meglio conosciuto con il nome inglese di “School of the Holy Beast”.

La pellicola è ambientata in un convento di monache dalle inclinazioni particolarmente sadiche e promiscue e non risparmia scene che ad un pubblico europeo appariranno sicuramente al limite del dissacrante. Ritorna qui il tema della ricerca della vendetta di una figlia in nome della madre; si intravedono però in filigrana altre tematiche tutt’altro che semplici quali le esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki e le grottesche conseguenze cui porta una società oppressiva che idolatra la disciplina e il conformismo.

Dismessi gli abiti tradizionali e le tonache da suora è ad ogni modo l’estetica urban gritty a costituire la scenografia di preferenza per i pinku eiga, spesso ambientati nelle metropoli tentacolari del boom economico giapponese degli anni ’70.

Un chiaro esempio di questa estetica è dato dalla pentalogia intitolata Stray Cat Rock: una serie di cinque film realizzati nel giro di pochissimi mesi e diretti da uno dei maestri del genere “violent pink”, Yasuharu Hasebe.

I vari episodi che si dipanano nel corso di queste pellicole vedono come filo conduttore le avventure di una gang di teppiste e bikers interamente al femminile, nel corso delle quali vengono toccati temi rilevanti quali razzismo (nello specifico lo stigma con il quale sono viste le relazioni interrazziali) e l’occupazione militare del Giappone da parte delle truppe americane.

In definitiva sono le trame pulp, le storie di personaggi ai margini della società e gli amori scandalosi che forniscono l’afflato vitale all’universo del genere pinku eiga che, pur in apparenza così anacronistico e distante da noi, tratteggia una rappresentazione interessantissima di protagoniste al femminile tutt’altro che vittime degli eventi o di un destino predeterminato, imposto dalla società del tempo.


Naturalmente, non dobbiamo dimenticare di avere ancora a che fare con una visione estremamente “fallocentrica” della società, poiché ritratta da un nucleo di registi e scrittori da declinare pressoché tutto al maschile.

Ma è in questo ambito di trasgressione e sovvertimento dei cliché che gli autori hanno giocato in maniera consapevole con le convenzioni e i tabù di una nazione altamente moralistica, come risulta essere tutt’oggi quella giapponese, e lo hanno fatto ribaltando le aspettative del pubblico e mettendo in mostra le conseguenze estreme cui il male sociale del conformismo portano, sempre con un gusto per il grottesco e senza edulcorazioni visive di sorta.

Gabriele Volpe

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La Redazione

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