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La Resistenza attraverso l’occhio della cinepresa di Rossellini

Martin Scorsese dichiarò in un’intervista di aver tratto ispirazione dal genio rosselliniano, e dal contributo fornito dal noto cineasta, ai fini della propria crescita e formazione professionale.

Otto Preminger lo assunse come termine della netta cesura che caratterizzò il cinema nella seconda metà del Novecento.

La personalità di Rossellini ci offre una finestra sull’orrore del mondo che connotò il primo dopoguerra.

Vi è sempre una grande difficoltà nel trattare in modo esaustivo in poche battute l’ampio contributo fornito all’industria cinematografica del Novecento da un ingegno di tale portata.

L’eredità che ci lascia Rossellini tende a ripresentarsi tutt’ora nel cinema moderno: dal soffermarsi della cinepresa su gesti che possono apparire indegni di particolare rilievo, fino a giungere all’abbandono degli studi di posa e dell’impiego di attori professionisti.

A tal proposito egli stesso dichiarò:

“Al fine di creare realmente il personaggio che uno ha in mente, è necessario che il regista si impegni in una battaglia con i suoi attori, che normalmente finisce con la sottomissione ai loro desideri. Siccome non voglio sprecare le mie energie in questo tipo di battaglia, io uso attori professionisti solo occasionalmente”

Fu Otto Preminger a sostenere che: «la storia del cinema si divide in due ere: una prima e una dopo Roma città aperta», quasi a denotare una linea di demarcazione tra il cinema pre e post rosselliniano che, a partire da Roma città aperta, fa tabula rasa dei canoni precedenti, dando il via a una stagione cinematografica di stampo marcatamente neorealista.

La penna dello scrittore e l’occhio della cinepresa si pongono parallelamente dinnanzi alla realtà storica del tempo, con l’obiettivo di farsi specchio delle vicende della guerra e della Resistenza. Ci si vuole riappropriare della voce e dello sguardo sottratti dal ventennio fascista, fare della macchina da presa strumento di testimonianza diretta dei fatti di cronaca come forma di denuncia sociale.

In particolar modo, il cinema rosselliniano si propone di mettere in luce, in modo documentaristico e fenomenologico, le difficili condizioni di vita delle classi popolari del primo dopoguerra, come reazione al gusto edonistico e al vuoto formalismo delle pellicole di pura evasione del periodo fascista, incentrate sull’intimismo e il soggettivismo degli anni ’30, il cosiddetto “cinema dei telefoni bianchi”. Seguire con la macchina da presa le camminate dei personaggi alle loro spalle è, come diceva Rossellini, solo un escamotage per muovere lo sguardo sullo sfondo, sul mondo circostante, sulla società.

Al regista si deve la Trilogia della guerra, che si articola in Roma città aperta del 1945, Paisà del 1946 e Germania anno zero del 1948. In Roma città aperta, l’occupazione della capitale da parte dei nazisti viene rievocata assumendo via via il punto di vista di diversi personaggi, tra cui un partigiano, un prete, interpretato da Aldo Fabrizi, e una donna del popolo, magistralmente interpretata da Anna Magnani, la quale incarna il personaggio dal vivo per eccellenza e risulta espressione della rilegittimazione della lingua parlata e del dialetto che in quegli anni andava attuandosi sul piano fonetico in ambito cinematografico.

Caratteristica del cinema di Rossellini è infatti la scelta di un’oggettivazione della macchina da presa, che non è mai tesa a proiettare esperienze particolari, bensì si assurge ad emblema delle istanze sociali collettive. Da tale atteggiamento risulta l’universalizzazione della realtà che diviene rappresentativa ed esemplare, in un intreccio di destini particolari in cui lo spettatore stesso può riconoscersi e ritrovarsi.

Il cinema mette in scena dei veri e propri antieroi, personaggi anonimi del mondo moderno, colti nel grigiore della loro quotidianità, inetti vittime di una rassegnata passività agli eventi, mostrando il volto di un proletariato urbano incapace di una presa di posizione. Assistiamo dunque ad un processo di “diseroicizzazione” e disfacimento dal mito sul piano della connotazione sociale e introspettiva del personaggio in un completo distacco da qualsivoglia prospettiva affabulatoria, adottata invece dagli scrittori contemporanei a Rossellini.

In Paisà, infatti, la voce dell’autore non interverrà mai nell’intreccio drammatico degli eventi, giacché le cose verranno guardate senza dare giudizio in quanto, come Rossellini stesso afferma, “le cose hanno in sé il proprio giudizio”.

Il momento più alto di verità diviene dunque l’incontro tra realtà e macchina da presa dove, al di fuori di ogni mediazione ideologica, la voce dell’autore scompare quasi nel silenzio.

Denise Bossis

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La Redazione

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