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Sogno ergo sum: la legge del bovarismo

Madame Bovary è una delle donne più famose della letteratura. Sull’eroina flaubertiana sono stati scritti fiumi d’inchiostro che non giungeranno mai alla foce, perché questo archetipo letterario è anche un archetipo esistenziale.

Il bovarismo di Emma ha dato voce all’inquietudine dell’animo umano, al “suo eterno incespicare” tra sogno e realtà. Esiste un uomo senza sogni?

 “Sogno di un’ombra è l’uomo” diceva Pindaro e ancora, Ungaretti: “sono un grumo di sogni”; Shakespeare: “siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni”. E come dimenticare l’Interpretazione dei sogni di Freud, il sensucht romantico…

La lista potrebbe protrarsi all’infinito, ma ve la risparmio. Il punto è che se il binomio uomo-sogno è tanto comune, ci sarà un motivo?

Anche gli animali sognano, ma non hanno la facoltà di ricordarli e, soprattutto, non lo fanno ad occhi aperti. È a questo che mi riferisco in particolare, alle fantasticherie coscienti: le fucine di illusioni più ardue a crollare. Il bovarismo indica proprio queste: è un’insoddisfazione cronica, nata dal conflitto tra realtà e ideale, che spinge all’evasione, alla ricerca di sollievo in mondi altri, come quello letterario.

Il termine è entrato nella psicologia per definire la sindrome psicopatologica che manifesta i tipici atteggiamenti bovaristici: l’individuo arriva a crearsi una personalità fittizia, muovendosi in uno spazio-tempo che non gli appartiene e che non esiste.

Il potere immaginifico e immersivo della letteratura a volte può trasformarsi in ossessione e distorsione. Pensate che i Dolori del Giovane Werther ebbero un’influenza tale da scatenare un’impennata di suicidi, il cosiddetto effetto Werther, tanto che le autorità furono costrette a limitare la diffusione di romanzi fantastici e sentimentali.

Emma Bovary è una vittima della letteratura e delle condizioni socio-ambientali in cui vive. Ho letto commenti disparati sulla sua figura, molti non l’hanno apprezzata e non sono riusciti a calarsi nel personaggio, una donna troppo chiusa nel suo egoismo e nella sua cieca infelicità.

Razionalmente non è semplice comprenderne le ragioni, sembra disposta a calpestare tutto e tutti pur di trovare la tanto agognata soddisfazione. La smania borghese di ascesa che incarna, di certo non aiuta a simpatizzarvi, anzi la ridicolizza.

Tuttavia, dal mio canto, l’ho amata. Forse non sono obiettiva perché, in fondo, mi ci riconosco. Me l’hanno detto spesso finché, leggendolo, mi sono accorta che è vero.  Chiariamo, non aspiro a diventare un’aristocratica parigina, né ho accanto un odiato Charles, né posso definirmi patologicamente coinvolta; ma quell’anelito, quella spinta all’assoluto che non riesce mai a spiccare il volo, l’avverto con veemenza.

Mi sono fermata a riflettere: “caspita, sarei davvero una brava regista!” Poi ho pensato: “ma chi è che non si fa i film? Chi è pienamente soddisfatto della propria vita e non ha mai bisogno di evadere? E se lo scarto tra realtà e idea fosse la vera fonte dell’infelicità umana?”

Vi ho coinvolto nei miei filosofeggiamenti, ma scherzi a parte vi invito a trovare delle risposte. Mi sono resa conto che nessuno è escluso, l’uomo è a metà, non potrà mai sentirsi completo e, anche se lo fosse, non potrebbe rinunciare ai sogni, sono linfatici. Da qui, la voglia di tornare a riflettere su Madame Bovary, rivalutandola.

Emma è la parabola della donna nella società patriarcale ottocentesca. Trascorre la giovinezza in un convento, dove già tentano di imporle una maschera che non le appartiene. È una divoratrice di libri, ha un’indole artistica che viene scambiata per vocazione spirituale. Una volta uscita da lì non sa cosa sia il vero mondo esterno: i suoi termini di paragone sono il convento e la letteratura.

Chi glielo dice che tra i due poli c’è di mezzo la vera vita, che non è quella dei romanzi?  In Charles vede il principe azzurro che fino ad allora aveva fantasticato, arrivato a strapparla via dalla grigia provincia.

La salvezza non si cerca in un uomo, bensì in noi stessi, diremmo saggiamente oggi. Ma qui siamo nell’800, secolo in cui la donna era ancora vista esclusivamente come moglie e madre, l’unica opportunità di felicità concessa era la vita coniugale.

Emma e Charles sono agli antipodi: lei uno spirito magmatico, incontinente che vorrebbe voracemente cibarsi di tutte le esperienze della vita; lui un animo piatto, mediocre, privo di grandi ambizioni e, diciamocelo, patetico dalla nascita.

Non avrebbero mai potuto trovarsi.

L’amore passivo, domestico e monotono di Charles disgusta più di quello ardente e fedifrago della moglie.

Il maledetto ballo alla Vaubyessard le sbatte in faccia il mondo dei suoi desideri. Quando la nobiltà di sangue era associata a quella d’animo, uno spirito come il suo, non poteva che bramare di farne parte. Perché gli altri sì e lei no?

Ci vedo un po’ la teoria dell’ostrica verghiana: il tentativo di ascesa viene punito come se fosse un peccato di hybris, bisogna restare dove si è e accontentarsi, non c’è chance di cambiamento.

Emma è una vinta. Vede nel suo corpo l’unica moneta spendibile, ma per quanto si dimeni, ne è imprigionata, non riuscirà mai a fuggire né da sé stessa né dall’ambiente che le è toccato in sorte.

Il suo maggiore errore è stato quello di non aver voluto fare i conti con la realtà, neanche all’ultimo. Ha costruito una vita sull’apparenza, su un lusso ostentato, modi da gran dama e tresche amorose degne dei romanzi cavallereschi. Volontariamente non si è accorta dell’ingannevolezza dei suoi artifici, insostituibili alla realtà.

Il liquido nero che espelle durante l’agonia, non è altro che l’indigestione da letteratura e lo sfogo della vena artistica repressa. Il suicidio suggella i suoi fallimenti. Non è un caso se l’ultima a comparire sulla scena sia l’indesiderata figlia femmina, quasi come lascito testamentario della sconfitta. Avrebbe voluto partorire un uomo che la riscattasse, che potesse vivere la libertà a lei negata.

Ormai avete capito quanto questo romanzo mi abbia colpito e quanto si possa scavare senza sosta nei suoi significati!

Lasciate che la sapiente penna di Flaubert trascini nel suo flusso anche voi!

Rifugiarsi nei sogni è un buon compromesso, soprattutto in situazioni complicate come quella che stiamo vivendo, ma attenzione perché possono inghiottirci fino a diventare incubi. Il fenomeno, essendo connaturato alla legge dell’esistenza, è sempre attuale: se due secoli fa il modello illusorio era l’aristocrazia, oggi è quello offerto dai social.

Non abusate del bovarismo! Ricordate che l’unica sfera, in cui possiamo davvero agire e realizzarci, è quella presente del tangibile.

“Non sapete che ci sono anime in perenne tormento? Aspirano via via al sogno e all’azione, alle passioni più pure, ai godimenti più furibondi, e così sprofondano in ogni sorta di fantasie, di follie”.

Giusy D’Elia

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La Redazione

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