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Netflix presenta il grande cinema: ecco Mank di David Fincher

Il potente, espressivo cinema di David Fincher ci tiene compagnia ormai da svariati decenni, con film memorabili come The Social Network, Gone Girl, The Girl with the Dragon Tattoo.

Da buon regista di grande cinema, Fincher non poteva non sfruttare l’occasione Netflix per perpetrare la sua arte in tempo di crisi artistica e culturale.

In tempo di Covid, David Fincher su Netflix ci presenta il suo Mank.

La storia dietro Mank, l’intreccio per così dire, è apparentemente semplice, lineare: torniamo ai tempi del cinema della Hollywood leggendaria, della Golden Age del cinema. Siamo dunque negli anni ’40 (nel 1941, per essere precisi) e Hollywood è in procinto di affrontare la Seconda Guerra Mondiale, con il secondo dopoguerra più rivoluzionario della storia.

Il cinema, forse, era in lieve declino rispetto alla gigantesca ondata del post New Deal degli anni ’30. Iniziavano a fioccare, inaspettate e preziose, le grandi eccezioni al cinema narrativo classico diffuso dalle cosiddette majors: nascono i fenomeni come Orson Welles.

Ed è proprio in questo regista complesso e cervellotico, forse il più grande genio narrativo e visionario del cinema degli ultimi cento anni, che David Fincher affonda le sue grinfie espressive e visive.

Forse per una malcelata affezione ed una sentita affiliazione al tipo di cinema sia classico che “ribelle” al quale appartengono, nelle rispettive epoche, sia Fincher che Wells, il regista contemporaneo teme di esporre troppo il suo “predecessore”. Ed infatti, la presenza di Orson nella sceneggiatura è minima, quasi divina, mai esposta nella sua totalità.

Mank, per non parlare di Orson Welles, parla del genio celato dietro la sua grandissima e memorabile opera Citizen Kane (per noi Quarto potere): lo sceneggiatore Herman G. Mankiewicz.

Perché se Orson è passato alla storia per aver diretto quella che è la pellicola più complessa, misteriosa, magistrale e al contempo fruibile di tutto il Novecento, la penna dietro Welles è ciò che realmente ha dipinto il ritratto dell’uomo/personaggio Charles Foster Kane. E come poteva Fincher raccontarci la storia di un uomo così brillante, diverso, straordinario se non nel modo più assurdo a lui conosciuto?

L’impresa folle di Fincher è quella di catapultarci senza preamboli e senza salvagente direttamente nella realtà di Mankiewicz (Mank, appunto), la sua vita, il suo lavoro, piombano sul nostro schermo e ci avvolgono in una realtà parallela. Siamo anche noi nella Hollywood degli anni’ 40, che ci appare esattamente come la immaginiamo o, più probabilmente, come i film ci hanno insegnato ad immaginarla. E seguendo l’evolversi della pellicola, ad un primo sguardo innocente una vera e propria elegia all’artista Mank, scopriamo invece la finta favola del vecchio cinema classico.

Un mondo che ci è sempre stato presentato come puro, unico, irripetibile, una Eldorado irriproducibile, si rivela lentamente essere lo stesso mondo sporco, corrotto e superficiale di oggi.

Se ci aspettavamo un nostalgico tributo alla vecchia Hollywood, o la speranza che il mondo dello show business fosse stato una volta sano e pulito, dobbiamo necessariamente cambiare film e regista.

I mali che affliggono la carriera ed i rapporti umani di Mank sono una rappresentazione accurata, avvolta in una atmosfera remota, delle malattie sociali di oggi: segreti, corruzione, ostracismo del diverso, politica in ogni ambiente artistico, la spaventosa figura della stampa come ombra che si agita dietro tutto. E Mank, artista sensibile e di conseguenza alcolizzato, è voce fuori dal coro, solitario oppositore di regimi apparentemente onnipotenti ed indistruttibili.

Come sappiamo, si narra che la figura dell’onnipresente, potente ed imprendibile Charles Foster Kane sia basata su un personaggio molto reale: il magnate dell’industria del legno e dell’editoria William Randolph Hearst. Ma questo è Mank, non Quarto potere, e i personaggi diventano il loro doppio in carne ed ossa, la loro versione originale. Hearst è Hearst e quella a cui assistiamo è la sua corruzione, il suo doppiogiochismo e l’impossibilità di accedere ad una morale chiara, definitiva, di fare del senso qualcosa di edibile.

Fincher propone un’atmosfera sospesa, ricreando perfettamente un film di quasi cento anni fa, ci perde abilmente per la via, sospendendoci in un sogno che è un po’ vita, un po’ cinema, un po’ allucinazione. Verso la fine del film, non sappiamo più se siamo in Mank di David Fincher o in Quarto potere di Orson Welles, gli stili si fondono e confondono con profonda conoscenza e consapevolezza del cinema e delle sue capacità espressive.

Il lavoro fatto da Fincher, ma soprattutto da Gary Oldman nei panni di Mank, è spettacolare, da Oscar. Ripercorrere le tappe della storia del cinema è, probabilmente, l’unico modo per capire la via percorribile di un futuro che sembra ancora impossibile.

Lo spazio che Netflix sta dando al grande cinema e ai registi di un’altra generazione come Fincher crea confusione ma anche una vastissima gamma di possibilità. E, finché i prodotti diffusi sono come Mank, il connubio spergiurato si rivela infine sodalizio essenziale per la sopravvivenza di un’arte: quella filmica.

Buona visione!

Sveva Di Palma

Vedi anche: The Haunting of Bly Manor: il secondo capitolo di The Haunting of Hill house su Netflix

La Redazione

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