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Disney e disclaimer: quando l’happily ever after incontra il politically correct

Lo slogan “If she can see it, she can be it” è il potente monito della campagna di inclusione lanciata dalla Disney in risposta agli stereotipi razzisti veicolati dai capolavori della nostra infanzia.

Ma quanti passi sono stati fattieffettivamente, affinché rappresentazioni claustrofobiche o ipersessualizzate venissero sradicate dalla coscienza del mondo attraverso i media?   

“Questo programma include rappresentazioni negative e/o trattamenti sbagliati nei confronti di persone e culture. Questi stereotipi erano errati allora e lo sono oggi. Piuttosto che rimuovere questo contenuto vogliamo riconoscere il suo impatto dannoso, imparare da esso e stimolare un dialogo per creare un futuro più inclusivo. La Disney si impegna a creare storie con temi stimolanti che riflettano la ricca diversità dell’esperienza umana in tutto il mondo”.

Così recita il disclaimer inserito all’inizio di alcune delle pellicole disponibili su Disney+, la piattaforma streaming lanciata lo scorso marzo che, con i suoi intramontabili classici d’animazione, ha registrato in pochi mesi milioni di iscritti.

La formula scelta, che appare per dieci secondi prima dell’inizio di capolavori come Il Libro della Giungla Peter Pan, avverte cautamente gli spettatori della presenza di contenuti razzisti, obsoleti ed insensibili che per decenni hanno alimentato visioni stereotipate di minoranze e culture marginalizzate. La scelta del colosso statunitense ha fatto molto discutere i suoi fruitori e ha diviso anche la critica più colta: encomiabile (seppur tardiva) presa di coscienza o infelice appello al politicamente corretto?

Riavvolgiamo il nastro.

La miccia della diatriba è stata accesa a giugno da HBO Max, quando la scelta di rimuovere dal catalogo Via Col Vento ha scatenato le accuse di un oscurantismo anacronistico a scapito di un prodotto culturale che, nonostante le brutture, rappresenta un baluardo della storia cinematografica hollywoodiana.

La risposta? Reinserimento della pellicola con aggiunta di disclaimer, più ben due video esplicativi che analizzano le tappe della nascente epica americana a cui si intrecciano le passioni di Rossella O’Hara. Perché nonostante la lente nostalgica con cui l’idilliaco Sud viene dipinto –  rinnegando gli orrori dello schiavismo e consacrando definitivamente lo stigma razziale sul grande schermo – questo grande classico va preservato nella sua versione integrale in quanto preziosissima testimonianza di un’epoca.

Giusto così, ma torniamo al caso Disney.

La vision contemporanea del colosso, che oggi si dichiara orgogliosamente stereotype e gender-bias free, a quanto pare ha realizzato solo venti giorni fa che il  minstrel show di Jim il Corvo (il pennuto canterino di Dumbo che porta il nome del segregazionista Jim Crow e che sbeffeggia nell’abbigliamento e nell’accento gli afroamericani schiavizzati nei campi di cotone) è solo uno sketch di pessimo gusto, piuttosto che uno dei momenti più goliardici del cartoon.

E i nativi d’America, come dimenticarliChi è nato negli anni ’90 ricorderà vividamente personaggi iconici come Capo Toro in Piediil capo tribù Sioux di Peter Pan offensivamente apostrofato come redskinLa sua espressione corrucciata, le vistose piume ad incorniciare il viso e quella lingua inintelligibile hanno scolpito nell’immaginario infantile i tratti barbari di un popolo già massacrato da una storia matrigna.
E i bozzetti della Disney hanno saputo completare questa “spettacolare” violenzaappropriandosi abusivamente della loro ricchezza identitaria svilendo l’autenticità delle loro tradizioni. 

Ma attenzione, perché neanche i popoli asiatici escono illesi da questa criminosa disneyficazioneRicordate Shun Gon, il felino de Gli Aristogatti made in Chinacon occhi a mandorla e dentoni a coniglio? Proprio lui, che con quella r storpiata in l le chopsticks usate a mo’ di dita per suonare il piano ci ha regalato l’apoteosi di un cliché culturale perfettamente confezionato. 

Ma noi vogliamo essere indulgenti, difendere il valore storico di queste opere d’arte che hanno fatto sognare grandi e piccini e dare fiducia alla missione lanciata della Disney insieme al suo disclaimer: elevare ed ispirare i suoi spettatori attraverso uno storytelling che promuova caparbiamente la bellezza del diverso, senza però rinunciare ad un dialogo aperto sui messaggi devianti che inevitabilmente abitano le opere del passato.

Tuttavia, per quanto la valutazione dei contenuti sia stata affidata ad un gruppo di esperti esterni alla compagnia (come The African-American Film Critics Association), esperti di antropologia e sociologia hanno giudicato la scelta della Disney una linea prudente, pulita nel chiarire il suo posizionamento ideologico nello scenario attuale, ma rivelatasi spesso confusionaria e non troppo influente nelle scelte messe in campo (ed è qui che subentra il politically correct!).

Esempi: il remake di Aladdin del 2019 non vede attori arabi nel cast (curioso, considerando che Agrabah, la città in cui è ambientato il cartone, sarebbe dichiaratamente il corrispettivo fantasioso di Baghdad, in Iraq).

L’avvertenza ai contenuti offensivi sbuca ne Il Libro della Giungla ma non nel suo sequel del 2003 (ci si interroga dunque sulla credibilità dei parametri valutativi della compagnia).

E ancora: Tiana, la protagonista de La principessa e il ranocchiopassata sì alla storia come prima principessa afroamericana delle produzioni Disney, ma anche dipinta come una cameriera sottopagata, costretta a ritmi lavorativi estenuanti (reminiscenze della schiavitù ne abbiamo?), lontana anni luce dal sogno di diventare chef perché donna di umilissime origini (same old story) e, tocco finale, trasfigurata in un ranocchio per gran parte della pellicola.

Insomma, dagli ultimi prodotti sfornati dalla Disney si evince senza dubbio un ripensamento dello stereotipo in linea con il nostro tempo e una diversificazione più “creativa” nella caratterizzazione dei personaggi. Ma queste sbavature fanno pensare più ad una scelta diplomatica della multinazionale in risposta all’indignazione di chi non si vede rappresentato, piuttosto che a una sentita adesione ad un imperativo morale imprescindibile.

Ripassare luoghi comuni ancora vivi in una salsa meno piccante, spogliando gli eroi d’animazione della loro autenticità e vestendoli di un tessuto pubblicitario “sterilizzato” e socialmente appetibile, fa capire che scurirne l’incarnato o inserire disclaimer a inizio film non è un accorgimento abbastanza ardito per una missione così nobile, ma solo il primo di tanti passi verso un’arte ineccepibilmente inclusiva.

Perché plasmare i confini del possibile attraverso uno schermo richiede una responsabilità straordinaria e l’happily ever after non accade per caso, ma costa tanta tanta fatica.

Aspettiamo…

Francesca Eboli

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Francesca Eboli

Spirito irrequieto made in Naplulè che colleziona fissazioni dal 1995: andare a cinema e a teatro da sola, scovare boutique vintage invisibili e bazzicare posticini senza tempo. Laureata in lingue, scrive, recita e nel tempo libero vaga tra i quattro angoli del mondo con Partenope in tasca. Vietato chiederle cosa vuole fare da grande.
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