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Charlie Kaufman conquista Netflix: I am thinking of ending things e l’amarezza 

La difficoltà dell’esistenza, di trovare al suo interno un senso soddisfacente, di completezza, di realizzazione, è il centro nevralgico e tematico della gran parte del cinema contemporaneo.

La modernità come malattia sociale, visibile con sintomi quali ansia, paranoia, bipolarismo, è al centro di pellicole complesse, che hanno approcciato al tema con tecniche creative, fotografiche e descrittive diverse: manifestazioni forse della psiche del loro regista.

Charlie Kaufman, sceneggiatore e regista dietro film come The Eternal Sunshine of the Spotless mind (sceneggiatore) Essere John Malkovich (sceneggiatore) o Synedoche, New York ( regista), ha portato lo studio della mente in alcune delle opere più significative degli ultimi trent’anni di storia del cinema. am thinking of ending things, certificato da Rotten Tomatoes, è la sua ultima fatica, in streaming da questa settimana su Netflix.

Vestendo i panni del regista, invece che del suo ruolo solito di sceneggiatore geniale, Kaufman si trova a lavorare al thriller/horror psicologico am thinking of ending thingsbasato sul testo del libro dello scrittore canadese Iain Reid.

Un testo labirintico, pieno di false vie d’uscita, trabocchetti per il lettore celati dietro apparenti buchi di trama, giochi psicologici imprevedibili, volti a scardinare la certezza e le aspettative. Inizio, svolgimento e fine si mescolano senza distinguersi, perdendo il lettore in una serie di trappole abilmente depositate nei luoghi più inaspettati della lettura. Un linguaggio secco e inquietante crea l’atmosfera frammentata e schizofrenica di una psiche profondamente disturbata, vittima di se stessa, incapace di trovare la verità, la propria identità.

La storia di Louisa e Jake comincia come una normale storia d’amore, un amore giovane ma già vivo, reale, come tale anche in crisi. Louisa è una ragazza fragile, incerta, non conosce la portata dei suoi desideri e delle sue ambizioni, ama Jake ma al contempo non lo sopporta. “Sto pensando di finirla qui”, si dice ogni tanto. Jake è adorabile, le piace molto, ma niente, questa storia non è destinata a durare perché tanto poi andrà a finire come tutte le altre, simili a se stesse nel loro svolgimento e nella loro fine.

Una gita fuori porta per una visita ai genitori di Jake trasforma lo psicodramma, o il film d’autore sui disagi sentimentali dei giovani, in una pellicola senza capo né coda, in cui la casa d’infanzia di Jake si distorce lentamente fino a diventare una gabbia, uno spazio della mente più che del corpo, in cui non esiste spazio e non esiste tempo. Il tema dell’identità, attorno al quale ruota tutta l’opera, trova il modo di dipanarsi e snocciolarsi con i suoi tempi, tenendo lo spettatore con il fiato sospeso e la fronte corrugata fino agli ultimi venti secondi di film.

Quello che sembrava dunque non è. Louisa e Jake non sono l’emblema della coppia moderna inquieta, incapace di trovare la felicità nel dialogo e nello scambio, non ci troviamo di fronte ad un dramma sociale o antropologico. Kaufman gira tutto a questo ritmo sincopato, nevrotico, prendendo a piene mani dai trucchi di Lynch, suo grande predecessore in un tipo di cinema che fonde astratto e psicologico.

Chi è Louisa? Chi è Jake? Quanti anni hanno i genitori nei Jake? Louisa è Jake e Jake è Louisa? E chi è il vecchio inserviente la cui monotona esistenza si alterna nelle sequenze con quella dei due giovani? La certezza è una: nessuna domanda può trovare una risposta certa. Il gioco sulla psiche conta più di qualsiasi chiarezza di trama, più di qualsiasi narrazione.

La riflessione finale è profonda, acuta, ma attenzione: fa anche molto male. Quanto può essere una mente vittima di se stessa? Quanto può l’arte incidere su una mente già priva della propria lucidità, senza farla sprofondare nell’irrazionale più buio, cupo, irrecuperabile?

Il mistero e l’amarezza della mente e della vita vengono qui sondati con brutalità, maestria registica e due grandissime interpretazioni da parte di David Thewlis e Toni Collette.

Netflix non è solo sunshine&rainbows, ma anche ricerca, sperimentazione, rischio del grande cinema.

Buona visione!

Sveva Di Palma

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La Redazione

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