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La sorte di Giasone: tra gloria e sfortuna – parte 2

Sicché il viaggio degli Argonauti proseguì, arrivati alle Simplegadi, nel frastuono assordante delle onde che si frangevano contro gli scogli enormi, Giasone liberò la colomba. I due grossi scogli neri si ergevano maestosi come nati dai flutti del mare, rapidamente si avvicinarono tra loro sommersi da onde altissime che fragorose si scagliavano contro di loro sommergendoli quasi completamente ed altrettanto velocemente si distanziarono permettendo il passaggio della colomba e della nave Argo che tra l’esultanza generale dell’eroico equipaggio riuscì a superare anche quest’altra avversità.

Costeggiando la riva meridionale del Ponto Eusino, gli Argonauti giunsero al paese delle Amazzoni, le donne guerriere che furono affrontate anche da Eracle, quindi all’isola Arietas, dove si erano rifugiati gli Stinfàlidi, uccelli mostruosi con il becco e gli artigli di bronzo, che lanciavano le loro penne come fossero frecce. Originariamente abitanti dello Stinfalo, vennero sconfitti e costretti a rifugiarsi in quella regione da Eracle, in una delle sue “dodici fatiche”.
Dopo averli battuti, gli Argonauti giunsero finalmente nella Colchide, alla corte del re Aiete.

L’impresa che presentò il sovrano a Giasone aveva dell’impossibile: aggiogare, in un giorno solo, due tori con zampe d’argento che sprigionavano fiamme dalle narici e che scorrazzavano nel bosco vicino al palazzo, poi servirsene per arare il suo podere sul quale seminare i denti di drago contenuti nel sacco che il re gli consegnò. Da ognuno di questi denti sarebbe nato un gigante che l’eroe avrebbe dovuto affrontare ed uccidere. Solo allora sarebbe stato degno di tentare la conquista del vello d’oro.

Giasone si congedò dal re e sconsolato ritornò alla nave dal suo equipaggio. Mentre ragionava sull’impossibilità di compiere tale impresa titanica in un sol giorno, una bellissima fanciulla chiese di poter salire a bordo della nave e di parlare con l’eroe. Al cospetto di Giasone la donna spiegò di essere Medea, la figlia del sovrano, ma svelò all’uomo anche la sua vera natura: era una maga che avrebbe aiutato Giasone nella conquista del vello d’oro. Così dicendo gli consegnò un unguento con il quale Giasone si dovette ungere il corpo e che lo riparò dalle fiamme dei tori così aggiogati rapidamente. Successivamente arò il campo e seminò i denti di drago consegnatigli. Ben presto vennero su temibili giganti. Giasone, su suggerimento di Medea, lanciò loro una pietra, i giganti si azzuffarono ferocemente tra loro senza neanche accorgersi dell’uomo. Così l’uomo corse indisturbato verso la quercia dove tra i rami vide scintillare l’agognato vello d’oro. Ai piedi del maestoso albero l’enorme drago dormiva indisturbato, addormentato da una potente pozione della maga Medea. Giasone uccise il drago, prese il vello d’oro e raggiunse la giovane donna che lo attendeva al limitare del bosco. Salirono sulla nave ed insieme al resto dell’equipaggio fuggirono dalla Colchide. Il re Aiete aveva radunato un grande esercito con il quale avrebbe voluto attaccare Giasone e gli Argonauti che fortunatamente avevano già mollato gli ormeggi e lasciato l’isola, con il vello d’oro che scintillava al sole, appeso sulla sommità dell’albero maestro.

Il viaggio di ritorno come quello dell’andata fu molto difficile: popolazioni ostili e pericoli costanti insidiarono la grande nave Argo. Le sirene provarono ad ammaliare l’equipaggio, ma il cantore tracio Orfeo, consapevole del pericolo a cui i suoi compagni d’avventura stavano andando incontro, afferrò la lira e cominciò a suonare e cantare una melodia talmente dolce che fu impossibile non ascoltarlo. Così la lira di Orfeo e la sua dolce musica distolsero gli Argonauti dall’ascoltare le sirene, le quali non si poterono sottrarre, anch’elle, dalla dolce musica e si disposero ad ascoltare il noto cantore, così come i pesci del mare e gli uccelli del cielo. Tutti rimasero estasiati all’ascolto di una tale profondissima melodia.

Gli Argonauti poterono ripartire e ben presto riapprodarono a Iolco. Pelia, nonostante il compimento di tali imprese, si rifiutò di cedere all’eroe il trono che non avrebbe potuto conquistare da solo, senza il suo equipaggio, tornato a casa alla fine del viaggio. Ancora una volta l’intervento di Medea si dimostrò decisivo: attraverso le sue arti magiche, la donna convinse le figlie di Pelia che avrebbe cucinato per loro una pozione magica che le avrebbe rese di nuovo giovani, ma che sarebbe stato necessario cuocere in questa pozione loro padre. Così ingannate dalla maga Medea le figlie di Pelia uccisero il sovrano usurpatore e Giasone poté finalmente diventare il sovrano di Iolco.

Purtroppo tutto ciò non durò molto poiché Acasto, un figlio di Pelia, aizzò tutto il popolo contro di lui e contro l’odiata Medea. Così i due novelli sovrani dovettero fuggire nella città di Corinto. Qui trovarono riparo presso il re Creonte il quale ammirava molto Giasone, siccome aveva udito delle sue grandi gesta e gli offrì in sposa la sua giovane figlia Glauce. Medea accecata dalla gelosia al solo pensiero che Giasone potesse davvero prendere in moglie la giovane figlia del re Creonte, si servì ancora una volta della sua magia per modificare il destino suo e dell’amato Giasone. Avvelenò delle vesti e un diadema e le donò a Glauce la quale morì appena ne venne in contatto. Per vendicarsi di tale tragedia Creonte fece ammazzare i due piccoli pargoli della coppia, costretta repentinamente a fuggire da Corinto.

Medea in un primo momento fuggì ad Atene, dove sposò il re Egeo, ma successivamente al ritorno di Teseo dovette abbandonare anche quella città e rifugiarsi nella sua Colchide. Giasone invece, addolorato per la perdita dei suoi figli, dopo aver donato la sua mitica nave al tempio di Febo, in Corinto, si ritirò a vivere nella più completa solitudine. Dopo molti anni, però, un giorno, spinto dalla nostalgia, decise di tornare a far visita alla sua gloriosa Argo. Nessuno avrebbe potuto riconoscere in quell’uomo vecchio e stanco, che trascinava i sui passi, il conducente della celebre impresa. E così salito a bordo dell’imbarcazione ricordò le mille avventure vissute, rivide il vello d’oro appeso alla sommità dell’albero maestro, riudì la propria voce dare comandi e le onde rifrangersi contro quegli scogli tanto spaventosi…

Ad un tratto, l’albero maestro, corroso dalle intemperie e dal tempo, si spezzò e cadde rovinosamente travolgendo l’eroe che morì sul colpo proprio su quella leggendaria nave con la quale conquistò il vello d’oro, gli onori e la gloria.

Luisa Ruggiero

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La Redazione

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