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Stefano Cucchi e la giustizia

Too little, too late”, dicono gli americani, nel loro idioma essenziale, diretto, espressivo. Con questa espressione parlano di una soddisfazione ritardataria, magari ricercata alacremente, incapace di avere il proprio gusto. Troppo poco, troppo tardi, Stefano. Questo idiom è per te.

14 novembre 2019, la sentenza è positiva: i carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’ Alessandro sono colpevoli, colpevoli di omicidio preterintenzionale. La loro condanna sono 12 anni di carcere. Hanno picchiato a morte un ragazzo, un certo Stefano, Stefano Cucchi, arrestato per possesso di hashish, cocaina e medicinali per l’epilessia il giorno 15 ottobre 2009.

Ci è ignoto perché il giovane geometra trentunenne sia entrato in caserma magro ma integro e le foto del suo cadavere – risalenti al giorno della sua morte, il 22 ottobre – ci restituiscano un uomo svuotato, tumefatto, martoriato. Il suo corpo non è più giovane, non è più integro, né umano. Inorridisco, anche dopo averle viste mille volte, quelle foto. Le foto che Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, ha esposto pubblicamente, affinché quella snaturata, sfigurata faccia arrivasse nelle case di tutti: il volto di suo fratello, il volto amato di suo fratello.

Ho sempre immaginato il suo, di orrore. Nel vedere, nel mostrare, nella consapevolezza di aver perduto qualcuno senza motivo, senza spiegazione. “Com’è potuto accadere questo?”, sembra chiederci lo sguardo di Ilaria Cucchi, mentre viene fotografata con in mano una gigantografia del volto livido del cadavere di Stefano. Sembra chiederlo a noi, come sia possibile, perché lei non sa, non sa come sia possibile che quell’uomo che aveva il suo stesso sangue nelle vene, il suo stesso sorriso sbilenco e il naso dritto, adesso non respiri più e perché i suoi occhi siano così gonfi, la sua schiena così scura, le sue ossa così appuntite, dolorosamente appuntite.

Il cadavere di Stefano Cucchi ha invaso tutto, i giornali, le case, le sicurezze, le famiglie, lo status quo, pochi chili di uomo sono diventati ingombranti, sconvolgenti. Ognuno ha preso una posizione, rispetto a quei pochi chili di uomo, rispetto a quel morto, inconsapevole di aver diviso l’opinione pubblica, di essere l’oggetto di faide politiche e rivendicazioni sociali. Drogato, è stato chiamato, martire, simbolo, emblema. Anoressico, problematico, nullafacente, “se l’è cercata”, Stefano. Voleva morire così, è evidente, no? Le persone così sono rifiuti, reietti, gli inutili. Lui era uno di quelli che potevano morirci, in carcere, perché tanto non avrebbe portato nulla alla società, nessun profitto, niente per alimentare il processo produttivo, l’incedere incessante del progresso, del passo.

Il passo bisogna tenerlo, altrimenti non si produce ricchezza, e a quel punto qual è per il mondo il senso della tua esistenza? Se non produci, se ti droghi, se ti sballi, se cedi, se sei fragile, perché non dovresti essere uno di quelli che muoiono da soli, feriti, abbattuti da chi invece nella società mantiene l’ordine, ha il potere, riveste un ruolo preciso, protegge da persone liminali? Perché tu vivi?

La sentenza di colpevolezza dei carabinieri è giunta, certo, tutto sommato c’è qualcuno che per il tuo diritto a vivere ha lottato, per provare a restituirti ciò che ti è stato tolto mentre tu eri inerme, Stefano. Ci abbiamo provato tutti, sensibilizzandoci e sensibilizzando, Stefano. Abbiamo fatto del nostro meglio per far capire che la violenza è male, che il più forte non deve necessariamente picchiare per dimostrarlo, che chi cade può essere punito ma non eliminato.

Abbiamo cercato di convincerci e convincere che il diritto alla vita, sopra ogni altra cosa, sopra ogni altro valore, è importante. Giustizia non c’è, non esiste, se non quella data dalla fratellanza tra gli uomini, quella catena umana che possiamo creare tenendoci per mano ed educandoci al reciproco rispetto. Nessuno ridarà alla tua famiglia l’amore, i problemi, il dolore e la gioia che eri in grado di dare tu, Stefano. Ma almeno ci abbiamo provato, qualcosa è meglio di nulla.

Too little, too late, ma almeno è qualcosa. Non sappiamo, né mai sapremo, se riposi in pace adesso, se riposi, ma almeno siamo stati d’esempio. Chi sbaglia, talvolta paga. Non esiste uniforme in grado di celare le devianze e le mostruosità dell’animo, né giustizia in grado di assolverle o mascherarle.

Si impegneranno ancora, per toglierti di dosso la tenerezza, la solidarietà, per ricacciarti nel buio di quella cella fredda, di quel letto d’ospedale in cui ti hanno trascurato e lasciato morire, non smetteranno mai di provarci. Oggi, però, abbiamo vinto noi. Abbiamo vinto noi.

Sveva Di Palma

Fonte dell’immagine: Fanpage.it

Sveva Di Palma

Sveva. Un nome strano per una ragazza strana. 32 anni, ossessionata dalla scrittura, dal cibo e dal vino, credo fermamente che vincerò un Pulitzer. Scrivo troppo perché la scrittura mi salva dal mio eterno, improbabile sognare. È la cura. La mia, almeno.
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