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Emanuela, mi faresti un autografo?

Era il lontano duemilanonmiricordo quando conobbi Emanuela.

Era vestita tutta di bianco, portava un cappello stravagante e girava per il Comicon di Napoli.

Mi ha pastezzato proprio lei e io, seppur ho riso sicuramente durante il rituale, ho veramente visto in lei un modello, un “capo spirituale” da seguire. Ovviamente non ho nessun altarino in casa con la sua faccia e non le accendo candele, ma sarcasmo, ironia, allegria, intelligenza viva, un po’ di cinismo e libertà mi hanno sempre fatta andare su di giri.

Ho letto le risposte che mi ha dato e non sono riuscita a tagliare nulla, niente. Ci ho provato ma mi sono resa conto che sarebbe stato un vero spreco di materiale importante e, quindi, dato che tendiamo a spendere molto tempo con cose che magari non ci arricchiscono nemmeno, ho deciso che avrei postato tutto, T  U   T   T  O.

Godetevi Emanuela e se arriverete alla fine, seguite le mie istruzioni.

Enjoy!

Pappessa Scialatiella Piccante I

La prima cosa che mi viene da dire di me è che sono stata liberata e trasformata dalla satira. La satira mi ha insegnato a restare sul, anzi “dentro” il livello “letterale” della realtà, a rinunciare alle rime, ai giri di parola, alla favola. Questo non significa che riesco ad essere coerente e all’altezza dei miei ideali o dei miei sentimenti. Significa che la satira mi ha abilitata a manovrare uno strumento di osservazione, grazie al quale non trasferisco più ad altro – amore, dio, figli, patria – motivazioni, responsabilità, finalità. Ci sono io e il mondo. Io e la mia capacità di affrontarlo. Io e le contingenze. Possiamo chiamare tutto questo “lucidità”?

Non credo che la satira sia l’unica via per diventare “lucidi”, solo che a me è capitato di diventarlo così, di sicuro non lo ero per indole.

L’esito della lucidità è che gli scintillii ti seducono e ti abbindolano molto difficilmente. È come se tra te e la rappresentazione pubblica di persone e fenomeni ci fosse sempre un vetro. Spariscono scuse, falsi problemi. Non reagisci più come la volpe: se all’uva non ci arrivi, sai dire a te stesso “sei tu che non ci arrivi”. Scopri quindi che sei codardo o bugiardo o pigro. E quando impari a vedere te stesso, impari anche ad essere sicuro, i tuoi limiti non ti mettono più in imbarazzo, hai un atteggiamento concreto e una percezione realistica di ciò che sei, che puoi fare. Inizi ad amarti davvero, a riconoscerti nello spazio che ti sei creato nel mondo, spesso proprio dopo scelte sbagliate.  Quindi, per presentarmi, posso dire che volevo essere una persona che avrebbe fatto della scrittura (la scrittura vera, quella che finisce nelle antologie) il suo lavoro. Avevo sognato di diventare una “scrittrice a tutti i costi”. Invece questi costi non li ho sostenuti. Per pigrizia, per un talento più scarso di quello che avrei voluto o forse perché altre cose si sono rivelate più importanti. Sono una persona che ha costruito un percorso, che oggi ama, tradendo e non realizzando i suoi desideri. I compromessi che sono derivati dalla necessità di barcamenarmi tra ciò che volevo fare e ciò che davvero potevo fare, mi hanno permesso di conoscere altre abilità di me, che non avevo previsto di avere e che nel loro insieme hanno costruito un cammino ricco di esperienze, precario, atipico.

Ho scoperto la Chiesa Pastafariana Italiana nel 2014 quando, organizzando a Salerno una rassegna sulla satira intitolata “Satira a piccole dosi”, volli dedicare una serata al tema “satira e religione”. Conoscevo già il pastafarianesimo. All’epoca lo consideravo un movimento laico molto interessante perché aveva eletto come proprio linguaggio quello dell’attivismo satirico. Le ricerche in rete mi portarono a scoprire che il pastafarianesimo era giunto anche in Italia e che i primi pirati pastafariani si stavano organizzando in un’associazione. Li contattai per intervistarli in una rubrica radiofonica che curavo nella trasmissione “Santi e Briganti” in onda su Radio Base. Così poi… sono stata toccata dalle sacre appendici pappardellose del Prodigioso Spaghetto Volante e la mia fede pastafariana, il mio pirata interiore si sono risvegliati: non era attivismo satirico, era Verità.

Il mio ruolo di Pappessa non è “sensazionale”, tuttavia è certamente significativo. Nella nostra cultura, fortemente influenzata dalla rigida separazione dei ruoli maschio-femmina, nutrita anche dall’immaginario religioso, la donna è martire, è santa, è mediatrice tra l’uomo e dio, ma non è “capo”. È significativo che la Chiesa Pastafariana Italiana, nel primo mandato (il Pastefice resta in carica solo due anni, con possibilità di rielezione), mi abbia scelto in quanto donna: desiderava lanciare un segno, era una contro-risposta alle convenzioni vigenti. Successivamente, il mio genere sessuale non ha avuto alcun peso nella conferma del mio pappato, a cui, in definitiva, sono arrivata perché i fedeli iscritti alla Cpi sentivano riconoscenza per l’impegno che avevo maturato e perché individuavano in me la sintesi di una serie di valori o atteggiamenti che sentivano propri. Sono arrivata a questo ruolo per la generosità e la fiducia dei pirati pastafariani.

E per loro lavoro come un tarlo affinché tutte le esperienze in cui è mediaticamente e ideologicamente rilevante il pensiero libero, critico, laico ci riconoscano come loro alleati.

La mia famiglia d’origine riconosce che il pastafarianesimo porta alle più alte conseguenze mie innate esigenze e miei tratti caratteriali: la propensione a comunicare in modo ironico soprattutto la rabbia e la divergenza di opinione, la passione per l’umanità al di là di ogni credo, la forte associazione tra il concetto di libertà con quello di possibilità di scelta… La stravaganza, l’utilizzo della fantasia non per fuggire dalla realtà, bensì per metterla alla prova.

Molte istanze etiche della Chiesa Pastafariana Italiana non sono pienamente capite dai miei genitori, ma quando mi vedono tra i pirati, mi vedono felice, tra miei “simili”. Mio padre, nei primi tempi, quando commentavamo questa meravigliosa novità della mia vita, mi disse: “Ho sempre pensato che eri sola nel mondo, invece vedo che ci sono tante altre persone come te”.

I miei genitori non condividono tutte le mie idee e nei comportamenti sono molto diversi di me, ma mi hanno sempre autorizzata a essere differente da loro. L’unica cosa che hanno preteso fin da quando ero molto piccola è che fossi consapevole delle ragioni che sostenevano le mie idee, le mie preferenze, le mie scelte.

Le mie figlie dicono spesso che sono diversa dalla altre mamme. Ci sono momenti in cui mi accorgo che ciò per loro è motivo di vanto. Per la primogenita è stato anche motivo di ansia. Claudia ha avuto paura che fossi socialmente isolata o discriminata e, di riverso, che ciò si scaricasse anche su di lei.

Nel tempo, i fatti le hanno dimostrato che non c’è nulla da temere, non solo perché ho una comunità di riferimento solida e presente, ma anche perché molte delle persone con cui entriamo in contatto sono benevolmente curiose, attente e reagiscono con simpatia. La mia prima figlia, grazie alle frequenti prove che la mia “atipicità” ha determinato, ha scoperto che possiamo trovare amicizia, ospitalità, confronto anche tra persone molto diverse da noi. Non bisogna assomigliarsi per forza per volersi bene o per trovare gradevole la compagnia altrui.

Mio marito è un uomo intelligente e complesso. Non è una persona che si accontenta, non è una persona superficiale. Valuta le cose in sé e, contemporaneamente, anche in modo più allargato. Oltre ai principi, per lui contano i modi e i tempi. Quindi litighiamo tantissimo. Appassionatamente. Da 23 anni.

La famiglia di mio marito è una famiglia tradizionale. Hanno un concetto di rispetto che li porta a considerare problematico il mio atteggiamento di critica, soprattutto per le variopinte modalità in cui si esprime. Sono preoccupati che io possa rappresentare un modello dissonante per le mie figlie. Appartengono a una cultura – che probabilmente non apprezzano in toto ma che pure ritengono si debba tener conto – in cui la donna sposata e con figli, se è una donna perbene, si comporta “decorosamente” e non si pone sotto i riflettori con tematiche che si riferiscono alla libertà sessuale o al diritto di bestemmiare. Credo che i miei suoceri preferirebbero un’immagine pubblica composta e discreta, molto meno esuberante di quella che incarno, perché temono che quello che gli altri “possono pensare”, indipendentemente da ciò che realmente è, possa in qualche modo turbare la nostra famiglia. Credo che le loro preoccupazioni abbiano un’origine affettiva e amorevole, figlia inevitabile del contesto in cui viviamo, in cui effettivamente le mie lotte, la mia autonomia nella gestione del tempo libero, l’interesse per un arte decisamente avversa ai tabù si discosta molto dalle comuni attese.

I miei amici sono un vero e proprio amore per me, sono il termine fondamentale del confronto più libero e autentico che possa trovare. Sono diversi per estrazione sociale, esperienze di vita, ideologia, note caratteriali. Sono tutti di buoni sentimenti, profondi, onesti. Alcuni sono di vecchissima data.

Qualsiasi persona io chiami “amico” è intimo, vicino, accorto e ha dato alla mia vita un pezzo di sé. Sono persone alle quali mi mostro senza trucco.

Che mi sorvegliano, mi contestano, mi confortano. Gli amici che mi conoscono da molto giudicano il pastafarianesimo uno sbocco naturale e coerente, “tipico” di me. Sono le uniche persone che quando faccio qualcosa non si stupiscono: mi riconoscono.

Ciò che fa paura del pastafarianesimo non sono gli ideali sociali ed etici, condivisi con tanti altri movimenti per i diritti umani. Ciò che fa paura del pastafarianesimo è l’ostentazione, il rituale, la maschera. Perché mentre gli ideali sono di molti, i secondi sono consentiti solo al potere. E noi non siamo potenti. Allora come ci permettiamo?

Sono una scrittrice fantasma.

Credo che questo lavoro assomigli al mestiere del sarto. I clienti vengono da me con un mazzetto confuso e titubante di bozzetti. Campioni di tessuti e bottoni tra cui non sanno scegliere. Confeziono il loro abito. A misura del loro corpo.

Anche persone molto colte, molto intelligenti, molto preparate, a volte sono messe in crisi dalla scrittura. Pensare che certe idee non debbano essere divulgate solo perché non si sapeva come dirle, è un pensiero triste.

“Metti in vendita la tua creatività?” Sì.

“Scrivere una cosa che poi firma un altro non è vendere l’anima?” Beh, in effetti, nei miei servizi di scrittura professionale metto l’anima e scrivo per i miei clienti impiegando tutte le risorse culturali e tecniche che userei se scrivessi per me. Non credo sia immorale che il libro (per lo più saggi) sia firmato dal cliente e non da me, perché le persone per cui scrivo non rubano le mie idee o i miei sentimenti o le mie opinioni. Io vesto di parole, e con sentimento, le loro idee, i loro progetti, i loro studi. In un certo senso, sono una “traduttrice”: trasporto, da un sistema verbalmente inespresso a un sistema scritto, un mondo di conoscenze che non è certo mio.

Non mi dispiace sparire nel nulla quando termino un lavoro.

Quando scrivo per me sono vanitosa.

Quando scrivo per i miei clienti sono più neutrale e sincera.

Oltre a questo, mi occupo di satira dal 2003. Organizzo eventi culturali dedicati a questo genere.

Ho scritto due libri per bambini Mamma, devo dirti una cosetta… e, insieme ad Antonio Chessa, Toti, pirata cambusiere. Entrambi i libri sono illustrati da Giancarlo Covino.

Adesso commentiamo tutti con un RAMEN!

Benedetta De Nicola per Emanuela Marmo

Aggionamento del 2021: il nuovo progetto di cui Emanuela è direttrice è disponibile cliccando qui  https://articensurate.it/

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C’è una Tea Hacic-Vlahovic in ognuno di noi, spero

Benedetta De Nicola

Prof. di lettere, attivista fan Marvel da sempre. Ho fondato La Testata e la curo tuttora come caporedattrice e art-director.
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