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The Optic Trilogy: appuntamento al buio con la vulnerabilità

A Woman and a Man – una poser rimasta fatalmente accecata da un incidente stradale in gioventù e un impacciato fotografo curiosamente interessato a immortalare i non vedenti – colti in una conversazione bizzarra, fatta di nervi tesi, giochi di parole incompresi e disperati tentativi di empatizzare con la sofferenza di chi vive in una “darker reality”.

Lo sketch è il secondo di tre atti dello spettacolo The Optic Trilogy dello scrittore singaporiano Alfian bin Sa’at, messo in scena a Zurigo, Berlino, Monaco e Stoccolma, riproposto a San Pietroburgo dal regista russo-svedese Alexander Nordström ed esportato a Napoli dalla performance in lingua inglese di Alessio Sica e Margherita Romeo. Si tratta di un esperimento poetico sulle interazioni umane, sulla straordinaria unicità delle percezioni e il potere rigenerante degli incontri fortuiti.

Gli scambi tra i due protagonisti sono attraversati dal disagio di chi si approccia con goffa accortezza a chi è affetto da disabilità e sono continuamente spezzati dal tagliente black humor della donna che, spinta da un sadico gusto per l’imbarazzo, prova uno strano piacere nel ridicolizzare la compassione altrui per la sua condizione.

Entrambi induriti nei gesti e nelle parole – Man incalzato dalla delicata scelta di termini che possano essere neutrali e inoffensivi verso la donna e Woman tutta tesa ad apparire forte e composta nella sua cecità – quasi vanificano la propria corporeità, trasformandosi in voci narranti che lasciano palco libero a due sensibilità fragili e incerte, sepolte sotto il “politically correct” e la scia di cruda sofferenza che ogni trauma lascia dietro di sé.

Le provocatorie confidenze e i rimandi nostalgici al passato creano una tensione palpabile tra i due, che si traduce in distratti tocchi di spalle, profili e dita che si sfiorano romanticamente, sporcati da picchi di amarezza tragicomica o alleggeriti da risate liberatorie.

La donna cerca di mascherare il proprio dolore proiettandolo sugli altri, colpevolizzando l’awkwardness con cui ci si relaziona ai ciechi e banalizzando il dono della vista. Dice con convinzione che ogni individuo “vede” solo durante l’infanzia, il resto non è che un ricordo, una fasulla serie di imitazioni di una visione piena, vivida e irripetibile, come per minimizzare i limiti che la sua disabilità le impone.

Racconta barzellette fondate su giochi di parole – come blind (cieco) e blinds (veneziane) – ricorda l’irritazione della madre nel sentirla usare l’intercalare “I see” per esprimere assenso e cerca di investigare le motivazioni che spingono il fotografo a ritrarre la vulnerabilità umana, etichettando la sua scelta stilistica come immorale.

Il plot twist arriva con la rivelazione catartica del giovane artista, che, involontariamente, lascia intendere alla donna di averla già vista. Gli spettatori sapranno di lì a poco che la donna altro non è che il primo, innocente amore del fotografo, avvezzo a spiarla segretamente dalla finestra di casa al ritorno da scuola, lasciando ai raggi di sole battente inviare muti messaggi di un amore tenuto nascosto per anni, trasformato in sofferte preghiere dopo il tragico incidente e in lacerante desiderio di poterla rincontrare.

Sciolti dall’inibizione iniziale e uniti da questo malinconico viaggio nell’infanzia, i due finiranno per scambiarsi i ruoli, lasciando che sia la donna a immortalare il fotografo, guidata dall’occhio meccanico della fotocamera, fino a rompere ogni indugio con un appassionato, tenero bacio.

In una contemplazione lirica di idee, astrazioni e pensieri, carichi di patetismi e urli di solitudine, si schiude la verità di due individui feriti nell’epoca delle passioni tristi, due anime “full of longing”, separate e ricongiunte da un destino sorprendente e una fortuna “cieca”.

Francesca Eboli

La Redazione

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