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Quarant’anni di psicanalisi e non sentirli!

di Federico Mangione

«È assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla televisione.»

Woody Allen

Chi dice che i registi sono buoni per tutte le stagioni? In questa rubrica mensile delineerò dodici profili per dodici registi, assegnandone tre ad ogni stagione.

Ventuno marzo, San Benedetto. Inizia la primavera e con lei arrivano tre nuovi registi. Il primo è il maestro di Brooklyn: Woody Allen.

BIO. Woody Allen nasce a Brooklyn, New York, il primo dicembre 1935, da una famiglia ebrea di origine russo-austriaco-tedesca. La sua infanzia viene immediatamente segnata dall’incontro con la sala cinematografica, che avviene a soli tre anni, quando la madre lo porta a vedere Biancaneve e i sette nani. Ragazzo dalla spiccata intelligenza, i suoi anni da studente vengono segnati dal rifiuto dell’istituzione scolastica e dal continuo scontro con gli insegnanti. La sua carriera inizia nel 1952, quando comincia a scrivere battute per personalità come Ed Sullivan e Sid Caesar e due anni dopo viene assunto dalla ABC come autore. L’approdo al cinema avviene nel 1965, quando firma la sceneggiatura di Ciao Pussycat, diretto da Clive Donner. Ma è un anno dopo che comincia la scalata del genio newyorkese, quando scrive e dirige Che fai, rubi? (What’s up, Tiger Lily?), il suo primo lungometraggio.

STILE. Lo stile di Woody Allen è segnato indubbiamente dalla psicanalisi, oltre che dalla filosofia. Il regista, infatti, porta sullo schermo quello che è il suo rapporto con la propria mente — celeberrimo è il monologo introduttivo di Io e Annie — che si affianca anche al rapporto con la comunità e la cultura ebraica a cui appartiene. Genio assoluto della commedia, le sue pellicole abbracciano le più disparate tematiche, che sono legate, appunto, dalla personalità del regista, spesso anche interprete dei suoi film. Molti dei suoi lavori sono infatti incentrati sulla figura dell’autore cinematografico e, quando non è lui stesso ad apparire sullo schermo, affida l’Allen “personaggio” ad un attore che possa rappresentarlo al meglio — da John Cusack a Kenneth Branagh, da Will Ferrell a Owen Wilson. Attraverso sarcasmo e ironia, Woody esplora i meandri della sua mente, incanalando il flusso dei suoi pensieri e producendo sempre film colmi di significato, che da questo punto di vista vanno ben oltre la semplice generalizzazione di commedia.

IL FILM. Nella filmografia a cadenza annuale che dal 1971 caratterizza la carriera di Woody Allen, Basta che funzioni (Whatever works) è il film del 2009. La sceneggiatura in realtà è della fine degli anni ’70, quando il genio di Brooklyn aveva optato per Zero Mostel nel ruolo di Boris Yellnikoff, protagonista del film. Tuttavia Mostel morì nel ’77 e Allen abbandonò il progetto per trent’anni. Nell’esplorare la sua mente, il regista ha portato alla luce un “mini Woody” in versione genio della fisica rassegnato alla filosofia del “basta che funzioni!”, secondo cui l’aspetto razionale nelle scelte, finalizzato alla propria sopravvivenza, deve prevalere su ogni altro. Anche se, talvolta, capitano degli “accidenti” assolutamente imprevedibili, come l’innamorarsi di persone agli antipodi della personalità del protagonista Boris. Anche ‘sta volta il cineasta regala agli spettatori una propria analisi introspettiva sotto forma di contenuto audiovisivo. Ciò che patologicamente potrebbe essere definito un disturbo borderline o addirittura schizofrenia — a seconda dei casi — quando ci si riferisce a Woody Allen, lo si chiama, semplicemente, arte.

 

Disegno di Alberto De Vito Piscicelli

 

 

 

 

La Redazione

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