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Papà, si è incendiata la nonna

“… comprendo i vostri sentimenti ma non posso menzionare per iscritto la combustione umana spontanea, perché una cosa simile scientificamente non esiste. Nel mio rapporto parlerò di fatalità.”

(dr. J. Burton sul caso di Jeannie Saffin, 1982, Edmonton, Londra)

Sarebbe troppo semplice trovare giustificazione a fenomeni sconcertanti di questo tipo appellandosi a lei, la fatalità. Ananke (ἀνάγκη), nella mitologia greca, dea della necessità inflessibile, rigorosamente aliena da concessioni o compromessi quando si tratta del suo volere: potrebbe mai esserci lei dietro al mistero della combustione umana spontanea? Non credete che una “divinità” forse più venerata e indiscutibilmente più razionale, quale la Scienza, cercherebbe risposte diverse?

Una stanza deserta, tutto esattamente al proprio posto eccezion fatta per un misterioso mucchio di cenere, dal quale si salvano pezzi di gambe intatti, residui di cranio e dita di mani, una patina oleosa e maleodorante a coprire gran parte degli oggetti circostanti, le pareti e il soffitto: è questo lo scenario raccapricciante davanti cui ci si trova quando si parla di presunta morte per SHC (dall’inglese, Spontaneous Human Combustion).

In chimica, la combustione spontanea è un tipo di reazione di combustione che avviene per autoriscaldamento, non necessita cioè di fonti di calore esterne o dell’applicazione diretta di una fiamma per verificarsi. Ma cosa succede quando l’oggetto della combustione è il corpo umano? Può avvenire una combustione umana che sia realmente spontanea, che non abbia nessuna fonte di innesco che non sia il corpo stesso della malaugurata vittima?

Il caso più completo di presunta combustione umana spontanea è quello di Mary Reeser, che presenta le caratteristiche comuni a tutta la casistica documentata, su cui principalmente si sono interrogati studiosi, medici legali, ma anche e soprattutto amanti del paranormale, generando quell’alone di mistero che ancora oggi offusca la realtà dei fatti che stiamo per esaminare.

Ci troviamo nel 1951, in Florida, precisamente a St. Petersburg. Era la sera del primo luglio quando la signora Mary Hardy Reeser, tornata a casa dopo una visita al figlio, aveva manifestato l’intenzione di andare a letto presto, dopo aver preso due pillole di Seconal per assicurarsi un riposo sereno. La signora Capenter, sua affittuaria, la vide intorno alle nove di sera, ma nulla di anomalo sembrava esserci nel suo comportamento.

Erano le otto del mattino quando arrivò un telegramma per la sua vicina. Dopo aver firmato la ricevuta, si precipitò alla porta della signora Reeser. Cominciò ad allarmarsi non ricevendo risposta ma la sua preoccupazione si intensificò quando toccò la maniglia della porta: era bollente. Corse a chiamare aiuto e due imbianchini dall’altra parte della strada accorsero.

Uno di loro aprì la porta, ma non appena fu spalancata, i presenti furono investiti da un’ondata di aria calda. Il letto era vuoto; unico segno di incendio una piccola fiamma su una trave di legno. Ciò che scoprirono, quando il fumo permise loro di indagare, superava ogni legge logica: al centro della stanza, sul pavimento, era chiaramente visibile un’area carbonizzata, all’interno della quale si trovavano alcune molle annerite di una poltrona e resti umani, un fegato carbonizzato, un teschio rattrappato, un mucchio di cenere e un piede che calzava ancora l’inconfondibile pantofola di raso nero della Signora Reeser…

Scene dal forte impatto visivo, sconcertanti al punto di lasciare l’osservatore senza parole, terrorizzato e disgustato da quanto possa essere crudele la natura e fragile la vita umana; sono tante, forse troppe, le domande da porsi.

Come fa un corpo a raggiungere, con un semplice incendio domestico, le temperature necessarie per essere ridotto praticamente in cenere?
Perché gli ambienti e gli oggetti circostanti non solo non recavano alcuna traccia di incendio ma addirittura apparivano miracolosamente intatti?

Partiamo dalla genesi: come fa un corpo a prendere fuoco spontaneamente?
Una delle teorie più accreditate sostiene che ci sia un collegamento tra SHC e alcolismo.

L’accumulo di alcol nel sangue aumenterebbe la facilità di combustione, poiché la sua metabolizzazione produce idrogeno che, a contatto con l’ossigeno, darebbe luogo a numerose reazioni chimiche sprigionando energia sotto forma di calore. In realtà, questa spiegazione è inverosimile per un motivo banale: concentrazioni elevate di alcol nel sangue ucciderebbero il soggetto in questione molto tempo prima di raggiungere valori talmente alti da innescare una combustione.

Un’ipotesi interessante fu avanzata da Brian J. Ford, secondo il quale la combustione può essere agevolata da condizioni di chetosi, in cui l’alcolismo, il diabete o un’alimentazione povera di carboidrati produce un eccesso di acetone, una molecola estremamente infiammabile, che bolle a 56°C e solubile nei grassi. Non è quindi da escludere che questo accelerante abbia reso gli abiti delle vittime più facilmente infiammabili. Ma se la risposta è “un corpo non può bruciare autonomamente”, da cosa viene innescata la combustione?

Un collegamento con l’alcol c’è, ma non è da ricercare nella sua presenza nell’organismo, bensì nei suoi effetti sul soggetto che ne fa uso. Lo stato di ebbrezza rende più probabile il verificarsi di incidenti – con sigarette, candele o camini – e più difficile una reazione pronta da parte del soggetto che, inibito dai fumi dell’alcol, avrebbe difficoltà a reagire.

Spesso le vittime erano, oltre che alcolizzate, anche inferme, con una tendenza spiccata all’obesità e questo ci aiuterà a capire come riescano ad incenerirsi in un lasso di tempo così breve. Persino i forni crematori costruiti ad hoc per lo scopo, che raggiungono temperature di oltre 1300°C, non riescono sempre a incenerire le ossa, che tra i resti delle vittime di SHC non compaiono.

Ma un incendio domestico non potrebbe mai raggiungere certe temperature, lasciando intatto il resto. Ciò che avviene è detto effetto stoppino, wick-effect: strati di vestiti facilmente infiammabili potrebbero fare da “stoppino” e favorire lo sciogliersi del grasso corporeo, che si comporterebbe allo stesso modo della cera di una candela alimentando esponenzialmente la combustione.

Non bisogna trascurare il fatto che le fiamme si muovano dal basso verso l’alto, questo spiega perché talvolta gambe e piedi restino intatti, essendo anche meno provvisti di grasso. La sostanza viscida e maleodorante che si distribuisce per il resto della stanza non è altro che una mistura di residui di grasso e cenere.

Una combustione può persistere finché il processo di ossidazione che la riguarda ha a disposizione abbastanza ossigeno per ossidare i tessuti della vittima. Nonostante l’aria presente nella stanza, la rapidità della reazione crea una zona in cui l’ossigeno viene consumato completamente, questo fa sì che al termine del processo le fiamme, invece di propagarsi per la stanza, semplicemente si estinguano autonomamente.

di Rebecca Grosso

La Redazione

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