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La collina di Spoon River

di Domenico Chirico

Nel 1915 Edgard Lee Masters pubblica l’Antologia di Spoon River in forma di libro, radunando una serie di poesie sparse che aveva fatto uscire grazie a dei suoi amici in vari giornali di St. Louis.

Il successo fu subito sconvolgente: L’Antologia, corrosivo attacco alla società americana, viene inglobata dalla borghesia americana, che, riconoscendosi quasi in quegli “scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede”, la legge e ne discute in pubblico, con toni più o meno aggressivi nei confronti dello stesso autore; a Masters sembra un sogno.

Lui, un piccolo avvocato di provincia – costretto quasi in segreto a coltivare la passione per le lettere –, è sulla bocca di tutti per la sua opera, un’opera nata sui rovesci delle buste, a matita sui menù durante le pause pranzo dal lavoro o sul tram mentre tornava a casa. Mentre in Europa si discuteva sulla letteratura, si approdava al modernismo e si cercavano nuove forme che potessero di per sé già raccontare ciò che amo definire “la cosalità” ovvero l’attenzione agli oggetti nella letteratura del Novecento europeo, Masters utilizza una delle forme più antiche al mondo, l’antologia di epigrammi, una tecnica già codificata in epoca ellenistica e alessandrina (di cui pur ignora il ritmo, ad onore del vero).

Vedere tutta l’opera come una polemica accesa al puritanesimo, oppure guardarla come un documento sociale, una svolta verso il realismo di una letteratura, come quella americana, che fu considerata molto spesso “barbara” e in cui, ora, si guarda davvero alla lotta per la sopravvivenza nel West, ammoniva già Cesare Pavese, non sarebbe sbagliato, ma almeno riduttivo. Nell’Antologia di Spoon River siamo quanto più lontani possibile dall’inscenare un dramma borghese da camera.

Il vero cuore della raccolta sta nell’ardore puritano con cui si guarda ai problemi che vengono posti: donne morte di parto, ubriaconi, vecchi ciechi, vergini illibate, padri e figli, mogli inascoltate e innamorati perduti affrontano il senso dell’esistenza e il problema delle proprie azioni, sono morti parlanti a cui l’autore dà la sua stessa voce per muovere dubbi e strappare confessioni.

Si incontra una ricerca sempre rinnovata, non vi sono certezze, ci sono solo mille interrogativi dai toni biblici che non trovano mai risposte, e quelle poche certezze che vengono poste alla fine di un epigramma vengono distrutte dal successivo, quando alla moglie tradita fa seguito il marito infedele, in una lunga catena di corsi e ricorsi, di note e di soluzioni provvisorie che danno via ad altri filoni in cui la domanda di fondo spaventosamente reale è se la sconfitta sia nella vita o nella morte (Hemingway e Wallace non sono poi così lontani).

Questi morti sono morti già da vivi, ad essi sono state tappate le ali, non dalla provincia, ma dalle incomprensioni. Sì, forse anche da quella, ma non in primis, in primis la vita stessa li ha distrutti lasciandoli logori dei loro malcontenti, delle loro passioni e dei loro rancori, anche in morte.

La Redazione

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