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Bugie neoborboniche: tutto quello che non vi hanno detto sul Regno delle Due Sicilie

di Domenico Chirico

Oggi capita spessissimo che soprattutto nel meridione si favoleggi intorno al Reame di Napoli e su come Garibaldi sia stato un conquistatore e un arrampicatore sociale.
E in ultimo su come i Savoia abbiano contribuito alla distruzione della città partenopea e a derubarla del suo patrimonio economico e finanziario.
Ora, sulle colpe dei Savoia e di Garibaldi, giustamente si è detto tanto; effettivamente l’unità d’Italia ha abbandonato Napoli a se stessa. La città nel giro di qualche anno, oramai spodestata dal ruolo di capitale, diventò il centro di svariate epidemie nella seconda parte dell’Ottocento.
Per debellare l’epidemia di colera, il governo De Pretis non seppe fare altro che pronunciare nel parlamento italiano il discorso con cui diede inizio ai lavori di risanamento della città; lavori, che nell’ottica governativa avrebbero dovuto ripristinare le condizioni igienico-sanitarie minime; mentre, invece, si tradussero nell’abbattimento delle mura quattrocentesche, nella distruzione di molti palazzi
densamente abitati, provocando migliaia di sfollati e nella creazione di quartieri residenziali per la classe dirigente piemontese mandata ad amministrare il mezzogiorno.
Tutti i neoborbonici più agguerriti, ricordano come la tassa sul macinato o sulla pece abbia danneggiato e vessato le popolazioni di pescatori ed agricoltori del Sud e di come il fenomeno del brigantaggio sia stato represso nel sangue dalle istituzioni piemontesi.
A questo punto vi chiederete tutti dove siano le bugie. Le bugie stanno nella narrazione che spesso viene fatta del regno borbonico come una terra perfetta, florida e in piena crescita tecnologica ed economica.
Tutto ciò non corrisponde a realtà. Durante l’Ottocento il regno delle due Sicilie, era una potenza politica, che, se durante il secolo precedente era riuscita ad imporsi nello scacchiere europeo ora esce distrutta dalle guerre con Napoleone, profondamente scossa e incapace di dare risposta ai moti rivoluzionari della prima parte del secolo.
La famiglia dei Borbone di Napoli diventa quasi un’appendice di potenze d’oltralpe, da cui non si sa emancipare, anzi a cui si lega più strettamente perché impaurita dalle sommosse popolari.

Nel XIX sec. Napoli è la città più popolosa del mondo e ha un patrimonio finanziario complessivo considerevole, ma non presenta né i lussi né la vita culturale delle altre capitali.
Dopo Napoleone, infatti, tutte le logge massoniche e i circoli illuministici sono chiusi, qualsiasi attività culturale è guardata con sospetto; la ricchezza è concentrata per lo più nelle mani di una classe nobiliare che si dà, secolarmente, allo sfruttamento della manodopera contadina senza nessun progresso tecnico su larga scala. Inoltre non si forma una classe attiva di mercanti e borghesi che vivono del proprio lavoro e che quindi avrebbero avuto interessi a sviluppare le produzioni artigianali come invece avveniva in molti altri strati d’Europa. Fuori Napoli il regno delle Due Sicilie è costituito da ville di piacere di ricchi signori e da piccoli o medi borghi di contadini vessati e tenuti completamente fuori dalla vita dello Stato, il deserto insomma.
Anche i primati tecnologici del regno furono fallaci, la prima ferrovia in Italia, la Napoli-Portici, (costruita da una società francese e assemblata con pezzi provenienti dall’Inghilterra) fu inaugurata nel 1839, ma nonostante gli auspici del re nel discorso di circostanza mancò un progetto chiaro di espansione della ferrovia in tutto il regno. Non se ne capì il potenziale, ed essa fu uno dei tanti intrattenimenti della nobiltà campana che si spostava annualmente dalla città alle ville di Portici.
In ultimo tutta la politica della famiglia Borbone durante il regno di Napoli fu caparbia e assolutamente chiusa a qualsiasi stimolo culturale. Guardinga nei confronti dell’élite culturali europee la casa regnante educò gli eredi al trono nella più rigida dottrina cattolica, su basi fortemente conservatrici e ottusa ai cambiamenti in corso. Durante i moti del ’48 la famiglia Savoia e la famiglia Borbone possedevano lo stesso potenziale economico e bellico (forse i regnanti napoletani, anche se in decadenza, erano persino superiori) ma solo la famiglia Savoia ebbe la prontezza di carpire il cambiamento nell’aria e di adoperarsi per la sopravvivenza.
Ferdinando II, invece, nel 1848 non seppe far altro che bombardare gli insorti palermitani e non pensò minimante, essendo cresciuto ed educato al rispetto dei patti del Congresso di Vienna del 1814, di poter realizzare l’Unità d’Italia sotto l’egida napoletana, sfruttando la sete di libertà e di costituzione che aleggiava in Europa.
A conclusione di tutto ciò possiamo dire che il Regno Delle Due Sicilie nel 1861 era uno Stato vecchio, rimasto fermo fuori dalle mura della sua capitale ad uno Stato di Antico Regime. Incapace di riformarsi per volontà proprio dei suoi regnanti che amavano questa terra di sole e di sale senza saperla domare.

Quando Francesco II di Borbone lasciò Napoli nel 1861, scrisse il New York Times, non ci fu niente di eroico, si trattava solo di un normalissimo signore borghese in carrozza che si trasferiva. Quello che era il Regno delle Due Sicilie, alla viglia della Spedizione dei Mille si palesò con prepotenza: un castello di carte che un mercenario con mille uomini ed un ministro come Cavour, con qualche abilità diplomatica, fecero crollare nel silenzio più totale. La storia è una cosa seria.

La Redazione

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