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Il processo ai Chicago 7 – L’America che non ha mai smesso di urlare

C’è (era) una volta una piazza che urla.

L’evoluzione sociale che cambia slogan da The Whole World is Watching fino a I can’t breathe.

Contro le restrizioni imposte da un rigore dogmatico della sanità, contro la brutalità delle violenze di genere o contro un’amministrazione governativa suprematista, bellica e repressiva.

Questa potrebbe essere il leit motiv, il filo di Arianna, ma è anche il plot de Il processo ai Chicago 7, nuovo film in programmazione su Netflix.

Un kolossal capace di unire stridente e geniale ironia a fatti di storica cronaca americana, un kolossal sul kolossal “mangia multisale” che è ormai diventata la piattaforma streaming. Sicuramente un film notevole nella sua composizione visiva e stilistica ma soprattutto un film che diventa una piccola mina nel caldissimo periodo del bipolarismo elettorale Trump Vs Biden.

A firmare la regia di questo film è Aaron Sorkin (che eredita e poi collabora ad una iniziale idea di Steven Spielberg), uno dei più geniali sceneggiatori cinematografici dell’ultimo ventennio (Tutti gli uomini del presidente, The Molly’s game ma soprattutto il sorprendente e pluripremiato The Social Network). Davanti alla sua macchina da presa un casting che è mutato periodicamente dalla genesi iniziale della scrittura del film ma che è rimasto un cast stellare.

Facciamo però un salto indietro restituendo contesto ad una storia, quella del film, che meritava di essere raccontata e capace di evocare nuove pulsioni in una battaglia di affermazione sociale mai sopita, che spesso si ripete, cambiando i figuranti ma pur sempre ripetendosi.

Siamo a Chicago, agosto del 1968, nel cuore di quella manciata di anni che hanno cambiato la storia politica e culturale non solo statunitense ma a livello mondiale. Rivoluzioni dei movimenti studenteschi, il maggio francese, le proteste sindacali, la primavera di Praga, Woodstock ma anche tanti capitoli neri di ombrosa storia. Il Presidente Lyndon B. Johnson annuncia a sorpresa di non volersi ricandidare, ad aprile viene ucciso a Memphis Martin Luther King, a Giugno tocca a Bob Kennedy (uno dei papabili candidati alla presidenza del partito democratico), il mattatoio dal fetido odore di Napalm della guerra in Vietnam (si contarono per un periodo circa mille morti a settimana tra i soldati americani) fino all’elezione alla Casa Bianca di un altro controverso personaggio, Richard Nixon.

Proprio in quell’Agosto si coalizza una forza progressista di una sinistra extracongressuale che organizza una marcia di protesta pacifista. Ci sono tra loro Abbie Hoffman e Jerry Rubin i leader del Youth International Party (gli yippies, ala politicizzata della galassia hippie), intrepretati nel film da Sasha Baron Cohen e Jeremy Strong. Dagli Students for a Democratic Society passando per i socialisti non violenti e addirittura le pantere nere.

Un movimento coeso e rappresentato dai rispettivi leader, imputati di un processo e protagonisti dell’opera corale che vede anche Eddie Redmayne, John Carroll Lynch, Yahya Abdul-Mateen II e l’avvocato che li rappresenterà al processo William Kunstler (Mark Rylance).

L’accusa è quella di sconfinamento dai rispettivi stati di provenienza per manifestazione non autorizzata in contemporanea alla convention del partito democratico (che pur sosteneva un candidato favorevole alla guerra in corso). Un abuso forzato di certi esercizi di potere che vede nei protagonisti i capri espiatori perfetti in una sorta di rappresaglia dello Stato, davanti ad un tribunale corredato di gogna mediatica contro una certa ala estremista e in opposizione a certe idee e politiche governative.

Sorkin dichiara: “avrei voluto il mio film fosse meno rilevante”, ma inevitabilmente crea un parallelismo con la contemporaneità di certe vicende socio-politiche. Gli Stati Uniti seppur con una sottile vittoria di Joe Biden guardano ai lati di una maggioranza dove sono addensati circa settanta milioni di cittadini che confermano la loro fiducia a Donald Trump. Una larga fetta di elettorato dentro cui si celano mire di supremazie razziali, sessiste, complottiste e che recenti fatti hanno portato nuovamente alla ribalta il movimento Black Lives Metter. Movimento antirazzista che tanto ricorda, ad esempio, una certa assonanza nel film ai Black Panther tanto vessati nell’arco temporale del processo (e non). Repressive violenze come l’imbavagliamento pubblico di Bobby Seale o l’uccisione del leader di Chicago Fred Hampton.

Una delle scene più significative (e quanto mai attuali) del film resta quella dello schieramento di polizia che nasconde i propri distintivi prima di prepararsi alla carica contro i manifestanti. Questi ultimi vengono spinti contro una vetrina che finirà poi in frantumi, dall’altro lato una serie di tavoli dove era seduta una certa borghesia di leader democratici quasi assorti nel silenzio leggero dietro un vetro fumè, distanti da tutto quello che stava avvenendo all’esterno. Quasi a rappresentare una sorda società di America liberale incapace di accorgersi di un certo disagio sociale che li circonda.

Insomma, caro Sorkin un film che difficilmente passerà in sordina, sibilante e invisibile, un film che unisce la brillantezza pop della comedy al dramma di un racconto di uno squarcio che ha rivoluzionato l’America.

Claudio Palumbo

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La Redazione

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