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“Wasted”: rap e mito sul palco dell’India

Al Teatro India di Roma è in scena fino al 26 Gennaio lo spettacolo di Giorgina Pi Wasted, ispirato al rap poetico folgorante di Kate Tempest.

Fotogrammi in bianco e nero di una serenata rock rotta dal pianto e tre profili densi d’ombra e d’oblio: questa la spettacolare scenografia d’inizio che inaugura il rito. Ted, Charlotte e Danny sono gli “dei” splendidi e laceri di questa cantata malinconica e grigia, superstiti di un’odissea interiore che non ha risparmiato nessuna anima della loro generazione.

Sono gli aedi di Wasted di Giorgina Pi, l’adattamento teatrale del testo di Kate Tempest, la rapper e storyteller inglese che, con la sua parola sovversiva e illuminate, glorifica e risveglia le coscienze assopite di una working class intorpidita dalla rassegnazione.

“Un tema che emerge dalla scrittura della Tempest è quello dell’eternità – legato alla mitologia classica – un’emozione indescrivibile, ma che sono convinta ogni attore sperimenti una volta calcato il palco. Perché il palcoscenico è come un luogo assurdo e incomprensibile in cui non si muore, dove il tempo è sospeso, non esiste, ma è completamente tempo. Perché sei lì, perché porta il rito e una quantità di necessità desideranti. In questo testo ho letto da subito una ferita continuamente lenita dalla poesia, e ho avuto la perfetta sensazione che Tempest riuscisse a raccontare la disperazione perché la illuminava, cosa che sento accada molto raramente”. È così che Giorgina Pi descrive il suo processo creativo e le suggestioni che il testo della rapper britannica le ha trasmesso con così tanta chiarezza.

La regista italiana ha scelto infatti di portare in scena la traduzione della traduzione di quelle stesse pause, urla silenziate e autocommiserazione contenute nell’originale, per mettere a nudo la cifra umana delle rivolte sentimentali, per offrire alla tenerezza una dimensione performativa tutta sua, per consentire allo smarrimento di dispiegarsi su quelle travi di legno in tutta la sua potenza disgraziata. Le vite dei tre protagonisti parlano di coloro che si sono persi, di quelli intrappolati tra gli ingranaggi spietati di una società che non perdona l’indugio e la debolezza, vite che riflettono i nostri di sbagli e che così si dilatano e si moltiplicano come per effetto di un’illusione ottica in una sala di specchi. Charlotte insegna ma è frustrata dall’esuberanza di quei bambini così persi e noncuranti, è paralizzata dall’automatismo asfissiante delle sue giornate e intrappolata in una relazione maledetta, che non riesce a troncare. Prende un biglietto aereo solo andata per ricucire i suoi vuoti emotivi altrove, lontano da quella città che l’ha messa al mondo e l’ha fatta sprofondare nel limbo dell’ignavia. Danny sogna di strimpellare il suo basso davanti a folle oceaniche ma non riesce neanche ad arrangiare una prova con la sua band, distrutto dal vuoto ingombrante del membro mancante, l’amico caro e perduto, risucchiato da quel baratro di droghe e frivolezza che ancora perseguita loro, giovani adulti, immaturi con la pelle già segnata dal tempo. Ted si trascina ogni mattina a lavoro con un senso di morte nauseabondo che gli consuma l’anima, ma il brivido di dire di no alla richiesta della moglie di accompagnarlo all’IKEA gli solletica la schiena solo per un brevissimo istante, il tempo di un sorso di birra e di un monologo amarissimo, sputato tutto d’un fiato, come se per purgare l’anima da quell’angustia bastasse la ferocia di una parola sincera.

È la parola di questi angeli caduti a descrivere l’eterna lotta tra noia e desiderio, la ferita e l’assenza che ci abita dalla nascita, che ci condanna alla speranza eterna e insoddisfatta di avere altro, fare altro ed essere altro da ciò che siamo, miseramente, ogni giorno di questa esistenza carente e imprecisa. E nella convulsa erranza di anime vagabonde, però, Giorgina Pi trova l’intuizione di convocarci tutti ad abbracciare la nostra responsabilità soggettiva, a scavare nei nostri desideri residui e nelle nostre più intime vocazioni, perché “la nostra morale si impara ancora dall’esperienza fatta in queste città così piene di rabbia e di noia e sì – / i nostri colori sono davvero opachi e ingrigiti / ma le nostre battaglie si combattono lo stesso / e siamo ancora mitici: / chiamateci col nostro nome. / Siamo perfetti proprio per le nostre imperfezioni. / Dobbiamo continuare a sperare; / dobbiamo restare pazienti – / perché quando un giorno scaveranno il tempo moderno / troveranno noi: gli Antichi Nuovi di Zecca”.

 

Francesca Eboli

 

La Redazione

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