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Once Upon a Time in… Bel-Air: La Famiglia Manson e l’omicidio Tate

Nella notte del 9 agosto di cinquant’anni fa, al 10050 di Cielo Drive, l’utopia degli anni Sessanta è stata assassinata dalla follia omicida di una comunità hippie. Il loro leader, Charles Manson, è diventato star mediatica e icona pop della perversione. Quentin Tarantino ha fatto di questa tragedia americana un film, Once Upon a Time in… Hollywood, in uscita nelle sale italiane il 15 agosto.

Ha ispirato libri, film, serie TV e il volume Helter Skelter è entrato nel guinness dei primati vendendo oltre 7 milioni di copie. Sociologi da tutto il mondo hanno studiato il caso Manson per cercare di spiegarne le contraddizioni e i moventi, gettando luce sul protagonista della cronaca nera americana del secolo scorso. Manson è l’esempio chiaro del fascino deviante che il male esercita sull’uomo. Ma cosa lo ha spinto a ordinare la strage di quel lontano agosto del ‘69? Pura follia o prodotto di una sottocultura attratta dall’esoterismo e dalla figura di Satana?

Ma facciamo un salto temporale, un trip nella stagione dei figli dei fiori.

Erano gli anni «dell’eterno amore degli adolescenti per le prove, le sfide, le droghe; le orge e il dolore di sentirsi fuori dalla società; il rifiuto e al tempo stesso il desiderio di farne parte», scriveva François Truffaut nei Cahiers du Cinéma. I Sixties hanno visto esplodere una controcultura giovanile di spregiudicata libertà e indomabile rivolta tutta made in USA, figlia dell’insofferenza all’ideologia ultraconservatrice che il “Sogno Americano” aveva preconfezionato. Una moda tossica, all’insegna di allucinogeni e sessualità disinibita, destinata ad assumere il rilievo di un culto, addirittura pensata come un “gateaway” per studiare stadi dello sviluppo cerebrale inesplorati.

È in questo universo di accentuata promiscuità che si insinua un girone infernale, il lato oscuro della cultura hippie che ha concepito uno dei crimini più sconvolgenti del XX secolo: “La Famiglia Manson”, la comune fondata da Charles Manson. Cresciuto tra carceri e riformatori, si trasferisce a San Francisco nel 1967 con l’ambizione di entrare nello star system e diventare icona della Summer of Love. Fan sfegatato dei Beatles, riesce a incontrare Neil Young, Dennis Wilson – batterista dei Beach Boys – e a combinare un provino con Terry Melcher, influente produttore nonché figlio di Doris Day. Ma il sogno della fama verrà presto spento dalla frustrazione di non riuscire a sfondare nell’establishment e deviato dalla consapevolezza del suo potere sulle donne: sfrutta il suo fascino carismatico in modo perverso, sviluppando doti manipolatorie nei confronti di ragazze fragili e desiderose di evadere dalla vita ordinaria. Da qui la nascita di una setta – composta da una cinquantina di adepti, per la maggior parte giovani donne fuggite dalla famiglia – dedita a sesso di gruppo, rapine, consumo di stupefacenti – hashish e LSD – e culto smodato della personalità del leader, il “Figlio dell’Uomo” (Man-Son) arrivato ad autoproclamarsi profeta di una nuova religione e incarnazione di Gesù Cristo e Satana insieme.

Con l’aumento dei seguaci Manson acquistò un vecchio bus scolastico che dipinse di nero – in barba ai variopinti furgoncini Volkswagen lanciati da Allen Ginsberg – per scarrozzare la sua “famiglia” in giro per la California, tra orge e piccoli crimini per guadagnarsi il pane (e anche la droga). Finché l’intera comune non si trasferì stabilmente a Spahn Ranch, un set cinematografico western ormai fatiscente – appartenuto ad un ex cowboy – situato a nord di Los Angeles, in cui il tempo scorre fluido, in assenza di giornali, orologi e calendari. Manson canta con la sua chitarra davanti al focolare, prega, filosofeggia – rifacendosi ai manuali di Scientology letti in carcere – sottopone le donne ai lavori più umili, imponendo una disciplina spiccatamente maschilista. La sua influenza arriva a plasmare completamente la mente degli adepti, ridotti a un’estensione del leader ed esecutori della sua folle volontà, tanto da chiamarne a raccolta i più fidati e ordinare loro di uccidere.

È il pomeriggio del 9 agosto 1969 quando Manson pianifica l’irruzione a Bel-Air, quartiere blasonato di Los Angeles, nella villa abitata dal maestro del cinema Roman Polanski e dalla giovane moglie, l’attrice e modella Sharon Tate, allora ventiseienne e incinta all’ottavo mese. La villa era di proprietà di Terry Melcher, lo stesso produttore musicale che anni prima aveva manifestato interesse per alcuni brani composti da Manson, ma che poi si era rifiutato di scritturarlo come musicista. Si pensa che quel luogo rappresentasse per lui – idealmente – il sentimento di rifiuto ed esclusione dalla realtà patinata a cui gli era stato negato l’accesso.

Quella sera erano presenti nella lussuosa abitazione solo la Tate e quattro amici, mentre Polanski era a Londra per terminare le riprese del film Rosemary’s Baby. Manson commissiona il delitto a quattro membri della “Famiglia” – Charles Watson, Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e Linda Kasabian – che subito freddano il guardiano Stephen Earl Parent a colpi di revolver. Tocca poi a Jay Sebring, agli altri due presenti e, per finire, a Sharon Tate, ultima vittima accoltellata ripetutamente dalla Atkins. Con uno straccio intriso del sangue dell’attrice viene disegnata la scritta “PIG” sulla porta d’ingresso, mentre sullo specchio del bagno l’espressione inglese “Helter Skelter”, titolo di una canzone dei Beatles che significa “confusione”.

Non si conoscono con certezza i moventi dell’efferato delitto. Manson stesso giustificò i propri atti predicando una teoria direttamente suggeritagli dal brano dei Beatles Helter Skelter: il suo istinto lo avrebbe interpretato come un messaggio profetico di caos e distruzione, fiutando un’imminente guerra razziale tra bianchi e neri. Secondo la sua versione delirante, sarebbe toccato proprio a lui accendere la miccia del conflitto, disseminando terrore, per poi ristabilire il Nuovo Ordine.

Quel che è certo è che in quel giorno d’agosto la religione di amore e fratellanza predicata dalla cultura hippie crollò brutalmente insieme al sogno americano, già destabilizzato l’anno prima con l’omicidio di Bob Kennedy. E il fatto che quel mostruoso film splatter avesse preso vita nel signorile quartiere di Bel-Air, in cui risiedevano star hollywoodiane come Cary Grant e Henry Fonda, contribuì alla paralisi sociale dell’opinione pubblica, raggelata dalla barbarie di un delitto senza precedenti.

Francesca Eboli

La Redazione

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