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Libera di essere folle

di Anna Russo

 

Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.

Alda Merini

(da Vuoto d’amore, Einaudi 1991)

 

Con brevi e apparentemente semplici versi, Alda Merini descrive se stessa.

Nata nel giorno di equinozio di primavera, si riconosce perfettamente nei germogli che squarciano la terra spoglia per trovare luce, vita, libertà.

In questi stessi versi, la poetessa allude anche alla sua follia; una follia che le deriva da un disturbo bipolare e che la costringerà a vivere gran parte della sua vita in manicomio. Una reclusione, questa, che non soffocherà la sua voglia di scrivere, il desiderio immancabile di esprimere ciò che sente, di elargire generosamente tutto l’amore che ha ma che, purtroppo, non ha ricevuto.

Io sono folle, folle,

folle d’amore per te.

Io gemo di tenerezza

perché sono folle, folle,

perché ti ho perduto.

Stamane il mattino era sì caldo

che a me dettava questa confusione,

ma io ero malata di tormento,

ero malata di tua perdizione.

“Io sono folle”, non si possono scrivere simili versi se non mossi da lucidità, dalla consapevolezza che non ci possa esser vita se non c’è amore.

Le parole di Alda fanno vibrare lo spirito e la carne, costringono a prender coscienza che ciò che gli altri chiamano follia non sia altro che una straordinaria sensibilità mostrata senza veli, senza timori, con genuina onestà.

Per la Merini l’arte era equilibrio tra talento e lucida pazzia: “La mancanza d’amore è la mia pestilenza”.

L’anarchica poetessa fuggiva dai canoni e da tutto ciò che poteva essere ordinario; con fierezza ostentava la sua indomabilità, la sua libertà.

Giudicata da una società che non accettava la sua irriverenza e incompresa da un marito assente, Alda arrivò a rimpiangere il manicomio, sostenendo che il mondo patologico fosse all’esterno di esso, un modo in cui le persone indossavano maschere e si sforzavano di essere “normali” vivendo, così, una “non vita” fatta di ipocrisie e rimpianti.

“Ero matta in mezzo ai matti.

I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti.

Sono nate lì le mie più belle amicizie.

I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo.

I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.”

Nonostante i ricoveri forzati e i disgustosi giudizi della gente, la poetessa italiana più amata di sempre, ha mantenuto integra la sua dignità. Dopo 46 elettroshock, la sua memoria è rimasta miracolosamente intatta, ha potuto ricordare tutto il dolore inflittole fino alla fine dei suoi giorni, eppure, ha perseverato nel donare a pieno il suo amore senza mai lasciarsi “ingabbiare”.

Alda Merini fu sempre se stessa, col rossetto rosso e le unghie smaltate, la casa piena di cianfrusaglie accumulate e le fotografie che la ritraevano nuda. La sua anima fu sempre libera, la sua penna fu sempre autentica.

“Non invischiate le mie mani libere

con le vostre false carezze

cercando di togliere il vanto

della mia ispirazione.”

Di lei Aldo Nove scrive: “Alda scriveva sempre, incontrollatamente, per salvarsi la vita e per perderla ritrovandola”.

 

La Redazione

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