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Doppio malto, unico sbaglio!

L’inesperienza brassicola e la cattiva pubblicità possono indurci in errore quando chiediamo la nostra pinta al bancone del pub.

Il publican è nostro amico, e i nostri amici non vanno offesi!

Il publican è quell’omino/donnina che, da dietro al bancone, serve la tua birra preferita o ti consiglia quella che lo diventerà.

È quella persona che funge da confessore quando la ciucca diventa triste, standosene lì ad annuire mentre strofina i boccali appena lavati.

È quell’individuo che ha una funzione sociale, e come un’istituzione merita il giusto rispetto. Quindi, non chiedergli mai “una doppio malto, rossa, dolce e senza schiuma”. Non si merita tutto questo male.

Nella nostra mente, “doppio malto” delinea una birra più corposa, più forte, con un carico di malto appunto raddoppiato, come dire “quattro luppoli” (ma questa, che invece è un’imprecisione, è un’altra storia). Nella realtà dei fatti, significherebbe “birra dalla gradazione alcolica superiore al 3,5 %”.

Negli anni Sessanta, una legge (n.1354 del 1962) classificò le birre in cinque gruppi (art.2), a seconda del Grado Plato, che misura lo zucchero nel mosto prima della fermentazione e da cui si può ricavare la gradazione alcolica. In Italia, più la birra è alcolica e più costa. Quindi, pretendere una doppio malto equivarrebbe a desiderare di pagare più tasse. Contento tu, contento il Fisco.

Il colore della birra è dato dalla tostatura del malto. Viene misurato secondo diverse scale: in Europa si usa l’EBC (European Brewing Convention), in America la SRM (Standard Reference Method) e la Lovibond. Chiedere una “rossa” significa richiedere una birra che secondo l’EBC ha un valore tra 20 e 40, range in cui ricadono stili di birra diversi, dalle Bitter inglesi (ad alta fermentazione, amare per quantità e tipologia di luppolo) alle Weiss Dunkel (tedesche, di frumento, a bassa fermentazione, dal gusto fortemente maltato). E poi di’ “ambrata”, non “rossa”, che fa più chic.

La parola “dolce” associata alla birra. Sarà che al mondo della birra sono associate barbe lunghe, pance tronfie e guance rubizze, ma è necessario scordarsi questo termine per evitare di essere scaraventati fuori dal pub. La birra non è “dolce”: la birra è “meno amara”, eventualmente.

L’International Bitterness Unit (IBU) è il metro che misura l’amaro dato principalmente dall’isohumulone (assieme ad altri iso-alfa-acidi) rilasciato dai luppoli, l’ingrediente emblematico della birrificazione. Ma è un valore lontanamente indicativo, perché tale ingrediente, interagendo con gli altri elementi della birra (malto, lievito e addirittura acqua) al palato può tradire le aspettative – palato che non riesce a percepire l’amaro oltre i 100 IBU, quindi è anche inutile vantarsi di aver bevuto una Imperial IPA da migliaia di IBU!

Senza schiuma”. Un cielo senza stelle. Il cinema senza Hitchcock. Un magazine on-line senza la mia rubrica. Non esiste. Non può e non deve esistere. La schiuma è struttura portante della birra: quel cappelletto di spuma serve a tenere fuori microrganismi molesti, ritardare l’ossidazione dovuta all’esposizione all’aria del liquido e a mantenere dentro gli aromi della bevanda. Insomma, allunga la vita della birra.

Le birre d’abbazia belghe, nel boccale, lasciano grandi quantità di “merletti di Bruxelles”, ovvero la schiuma residua dopo aver tracannato la nostra pinta; dall’altro lato però ci sono, per esempio, le Barley wine, che per il loro alto contenuto di alcol generano ben poca schiuma.

Infatti, l’alcol, ma anche gli aromi, il gusto, il corpo e tanti altri fattori della birra – addirittura la pulizia del bicchiere – possono rendere più vario il cappuccio sul boccale, anche per lo stesso stile. Comunque sia, non credete che la schiuma sia un metodo per truffare perché ti viene versata meno birra: la schiuma è la birra.

Nonostante tutto, sulle bottiglie di birra insistono le scritte “doppio malto”, “rossa” e altre amenità brassicole. Il perché è presto detto: marketing. Tali parole, sbagliate o imprecise, sono entrate nel gergo comune e si sono radicate al punto che, per puro commercio, chi produce birra si è dovuto adattare all’ignoranza collettiva. In alto i calici per ricordare la gloriosa lingua italiana.

Ma almeno ora sappiamo perché, enunciando la frase iniziale, un publican diventerebbe astemio, vestirebbe un saio con tanto di cappuccio e sparirebbe per sempre in un’abbazia di monaci trappisti… sbagliando, perché tali monaci sono i più grandi birrificatori del mondo!

di Antonio Liccardo

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La Redazione

Ciao! Sono la Redazione de La Testata – Testa l’informazione. Quando non sono impegnata a correggere e pubblicare articoli mi piace giocare a freccette con gli amici.
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