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Academy’s Redemption

di Federico Mangione

Quest’anno si è tenuta la novantesima edizione della cerimonia degli Oscar, la prima con la nube degli scandali sessuali che aleggiava sul Dolby Theatre. Ma quello delle molestie non è l’unico spettro che si aggira sull’industria cinematografica americana: la questione razzismo/minoranze ha, nel corso degli anni, assunto un ruolo sempre più importante nel discorso attorno alle assegnazioni delle statuette, anche se qualcosa sembra stia cambiando.
Ci sono tre messicani, un francese, un taiwanese e un afroamericano. Sembra l’inizio di una barzelletta e forse lo è, ma, come avrete notato, manca il napoletano, quindi non farà sicuramente ridere.
Questi cinque signori si sono alternati negli ultimi sette anni sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles, California, facendo man bassa di quei simpatici omini d’oro sbrilluccicanti chiamati Oscar. Fin qui nulla di divertente. Facciamo qualche passo indietro per capirci meglio, allora. L’industria cinematografica americana, specie nell’assegnazione dei suoi premi, è sempre stata molto “elitaria” (per usare un eufemismo). Le assegnazioni delle statuette per eccellenza da parte della Academy of Motion Picture Arts and Sciences che si è sempre ben guardata dall’assegnare in modo frequente premi ad esponenti delle minoranze o a stranieri, relegando spesso, a questi ultimi, i riconoscimenti alla categoria del Best Foreign Language Film, Miglior Film Straniero (chiedere a Federico Fellini per maggiori informazioni).

In ogni caso, la questione delle minoranze ha sempre suscitato un certo dibattito all’interno delle comunità che vivono negli Stati Uniti e che sono più sensibili a questi temi. Tant’è che, nonostante gli Oscar rimangano la massima aspirazione di chiunque faccia cinema, sui modi delle assegnazioni si tende a dare più credito ai “cugini poveri” degli Academy Awards, ossia i Golden Globes. Questo perché il loro criterio di assegnazione è diverso: i Globes sono assegnati da una giuria di giornalisti stranieri del settore, iscritti alla Hollywood Foreign Press Association, mentre gli Oscar sono votati da una selezionatissima cricca di circa cinquemila membri, facenti parte della cerchia dell’industria filmica hollywoodiana. Inoltre è risaputo che agli Oscar non è mai stata risparmiata qualche accusa di razzismo nelle loro dinamiche di conferimento.

Qualcosa, però, pare sia cambiato negli ultimi anni. Partiamo dai presentatori: Billy Crystal (che sta alle cerimonie degli Oscar un po’ come Pippo Baudo sta a Sanremo) ha presentato la sua ultima edizione proprio nel 2012. Nel 2013 gli è subentrato Seth MacFarlane, il creatore dei Griffin e di Ted, due prodotti un po’ avulsi al politically correct, che ha confermato la sua “scorrettezza” durante tutta la cerimonia; nel 2014 è stata la volta di Hellen DeGeneres (quella del selfie più retwittato della storia e della pizza ordinata e consegnata ai presenti durante la cerimonia), la quale, oltre ad essere geniale e irriverente, è gay; così come lo è Neil Patrick Harrys (il Barney Stinston di How I Met Your Mother), presentatore LEGGEN…DARIO nel 2015; nel 2016 è toccato a Chris Rock, afroamericano (che però aveva già presentato nel 2005); fino ad arrivare, nelle ultime due edizioni, a Jimmy Kimmel, un altro che ha poco self-control.
Il cambio di rotta non ha riguardato soltanto la presentazione, che generalmente era caratterizzata da una certa formalità, mentre ora risulta essere molto più “movimentata”. Il 2012 rappresenta un punto di svolta perché, da quell’anno, si sono succeduti a vincere la statuetta per la miglior regia un francese (Michel Hazanavicius, con Jean Dujardin, sempre francese, Miglior Attore), tre messicani (Alfonso Cuaron, Alejandro González Iñárritu, per due volte, e Guillermo Del Toro), un taiwanese (Hang Lee) e un americano, che di nome fa Damien Chazelle (di origini chiaramente made in USA), e già nel 2010 a vincere la statuetta fu, Kathryn Bigelow, una donna. A tutto questo ci aggiungiamo Steve McQueen, afroamericano, regista di 12 anni schiavo, pellicola trionfatrice nel 2014.

Questo excursus vuole sottolineare l’appartenenza a gruppi, discriminati per decenni, di artisti immensamente talentosi. Gruppi che per una vita sono stati messi da parte, ai margini, da un’istituzione nata quando il KKK era la norma e gli afroamericani non potevano far altro che essere domestici o braccianti per i bianchi, e che negli anni non ha saputo mai rinnovarsi e aprirsi realmente all’uguaglianza.

Il caso di 12 anni schiavo, che, come suggerisce il titolo, tratta proprio della condizione degli schiavi afroamericani, resta emblematico della paraculaggine (scusate il francesismo) dei signori dell’Academy, tranello in cui in pochi, a dire il vero, sono caduti.
I suddetti signori danno, invece, l’immagine di chi stia solo tentando la redenzione, messi ormai spalle al muro dalle voci di tutti, ritrovatisi con l’acqua alla gola probabilmente, e forse soprattutto, per motivi di immagine e ritorni economici.
Come dimenticare, poi, ciò che è successo con Harvey Weinstein, uomo di punta dell’organizzazione ed espulso da essa in seguito allo scandalo delle molestie sessuali, che si è, tra l’altro, allargato a macchia d’olio a tante personalità di spicco del cinema, non solo hollywoodiano? A tal proposito, consiglio a tutti di ascoltare il discorso di Frances McDormand, vincitrice del premio come Miglior Attrice Protagonista di quest’anno, capace anche lei di portare una voce forte sul palco del Dolby Theatre.

Intanto, nell’attesa di scoprire, un giorno, quanto ci sia di veicolato in alcuni atti e quanti di questi siano stati fatti, ci accontentiamo di questa redenzione apparente, guardando, con un certo ghigno e compiacimento, il progressivo crollo di un altro muro nella società occidentale.

 

La Redazione

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